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Archivio storico dell'arte — 7.1894

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Fasc. II
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Barbier de Montault, Xavier: Il calice di Gian Galeazzo Visconti a Monza
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https://doi.org/10.11588/diglit.19206#0124

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IL CALICE DI GIAN GALEAZZO VISCONTI

A M O N Z A

T.

videntemente un vaso non è un monumento. L'orefi-
ceria ha il suo stile proprio, come l'architettura, e gli
elementi costituenti i due generi non devono essere
confusi. Ci vogliono artisti distinti, là dove esistono
tipi affatto differenti. Quando un vaso, per le sue di-
mensioni esagerate e la sua forma monumentale, somi-
glia troppo a un edifìcio, diviene spiacevole all'occhio,
incomodo al servizio, spesso anche improprio ali1 uso
al quale è destinato.

E incontestabilmente un architetto, non un orefice,
quegli che ha disegnato il gran calice del tesoro di
Monza. Siccome questo vaso sacro dev'essere stato ese-
guito a Milano, non ripugnerei affatto ad attribuirgli
per autore uno di quegli artisti che elevarono, alla fine del xiv secolo o al principio del xv,
il duomo di questa città, in cui l'architettura svanisce, per così dire, in mille particolari,
arcate, aguglie e campanelle. Si può anche stabilire un legame di parentela tra il nodo
di quel calice ed i capitelli che coronano i fasci delle colonne del duomo.

Il calice di Monza è di tali proporzioni, che misura 0.34 di altezza, il suo piede ha 0/23
di diametro, e la sua coppa, larga 0.15, è profonda 0.13.

E stato fabbricato in argento, dorato in alcuni punti. Questa alternativa dei due me-
talli, frequente nel medio evo, produce un felice effetto. L'oro si mostra nella coppa, in
cui la rubrica l'esige per rispetto al Sacramento; ma, del resto, esso non si applica che
alle parti salienti, quelle che formano cornice, o quelle sulle quali deve fissarsi l'attenzione
a prima vista, come i motivi architettonici, le statuette del nodo e il circuito del piede.
L'orefice poteva dorare tutto; sarebbe stato forse più ricco, ma d'un gusto meno puro.

La fotografìa rende benissimo tutti i dettagli, di cui mi sarà diffìcile dare una giusta
idea nella mia descrizione; ma la forma in gesso, fattane a Milano, vale ancora meglio per
lo studio. Ora sono questi dettagli, piuttosto che l'insieme, che formano la bellezza di
questa composizione sapiente, in cui lo sguardo è attirato a distanza per le grandi linee
ed i contorni, ma che domanda sopratutto di essere esaminata da vicino, con l'oggetto
in mano, se è possibile.

Il piede, imitante una rosa, si divide in sei lobi, suddivisi essi stessi in altri lobi: i
lobi secondari sono arrotondati, mentre quello che determina la sporgenza è ad arco acuto
o ogivale. La base è larga e ben posata. Con le sue dimensioni poco comuni, il calice non
corre pericolo d'essere rovesciato sull'altare o nella credenza.
 
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