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Archivio storico dell'arte — 2.Ser. 1.1895

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Fasc. III
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Boito, Camillo: La ricomposizione dell'Altare di Donatello
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https://doi.org/10.11588/diglit.19207#0152
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LA RICOMPOSIZIONE DELL'ALTARE DI DONATELLO 143

marchese padovano quest'opera di Donatello pareva « non troppo degna di sì grand'uomo »,
proprio il contrario di quanto notano i più recenti scrittori, fra i quali lo Tscliudi, il quale
anzi esclama che ivi Donatello « sublima con sorprendente espressione il pathos », giudi-
candola una composizione perfettamente concepita, d'una eloquenza affascinante e di una
tale sicurezza ed eccellenza di esecuzione « da lasciar trasparire in ogni parte la mano del
Maestro ». In questo giudizio consente anche il signor Marcello Reymond neW Artiste, ove
dice: « Quant à la Mise au tombeau, c'est une magistrale composition se développant avec
ampleur dans une violence d'effet, que Rubens seul a pu égaler ». Ma lo scrittore tedesco
e il francese in altri punti non vanno affatto d'accordo: in questo essenziaiissimo, per esempio,
l'influenza dell'arte antica sul maestro fiorentino. Anzi il tedesco non va d'accordo con un
altro tedesco, il signor Semrau, autore del volume Donatellos Kanzeln in S. Lorenzo. Questi,
dall'altro canto, avverte che « Donatello ci si presenta in Padova non solo come uno che
dà, ma altresì come uno che riceve », giudizio addirittura opposto a quello del signor Muntz,
il quale, parlando di Donatello ritornante in patria, esclama: « Mais s'il n'avait rien appris
de ses hótes, que d'enseignements, ne leur avait-il pas laissés! » Quante teste tante sentenze;
ma non è da stupire, poiché non v'ha artista il quale più di Donatello ecciti la contraddizione.

La luce del suo genio illumina talvolta come un sole, quando fra lui e lo spettatore
non si alzi l'ostacolo di un interprete o di un manuale. Ma spesso il genio del maestro si
rivela attraverso alla natura ora ruvida od aggraziata, ora asciutta o gonfia, ora affrettata
o faticosa dell'uno o dell'altro fra i suoi diversi discepoli e aiuti; ed allora, sempre bril-
lando di luce propria, come un Nume nelle sue varie incarnazioni, assume certi aspetti, che
non sono tutti e intieramente suoi. Già l'indole di lui era tra le più mutabili: dall'arida
realità passa alla idealità sublime, dalla vigoria quasi selvaggia alla gentilezza quasi tenera,
dai putti scapigliati e frenetici nella gioia dei canti e dei giuochi alla serena dolcezza dei
San Giovannini e agli schiacciati-rilievi delle sue soavi (se sono sue) Sante Cecilie e delle
sue amabili (se sono sue) Madonnine col Putto. Multiforme, quasi come Dante, diventa spesso
cangiante, non solo dall'una opera all'altra, ma dall'una all'altra parte d'un'opera mede-
sima, e ciò in grazia di qualche difetto nuovo e non proprio, o forse anche, assai di rado,
in grazia di qualche nuova e non propria qualità secondaria. Insomma, questo sommo artista,
padron di bottega, complica la potente e varia individualità sua con le prerogative personali
de' suoi interpreti, fiacche, certo, al paragone, ma pur varie e spesso diverse dalle sue. Di
qui le difficoltà e le contraddizioni nel giudicar Donatello.

Quanti furono a Padova i suoi allievi? Erano passati nove anni dacché aveva sciolto
la compagnia con Miclielozzo e dovevano passarne venti prima che si legasse con Bertoldo;
ma, ora questo ora quello, aveva sempre bisogno di aiuti. Da Firenze menò seco a Padoa,
narra il così detto Anonimo Morelliano, Zuan de Pisa, quegli che fece agli Eremitani l'an-
cona o pala di terra cotta nella cappella ove dipinse il Mantegna. Giovanni segue imme-
diatamente al suo maestro nel rammentato merchà per i dieci Angioletti e i quattro Evan-
gelisti; poi vengono Urbano, cui alle volte è assegnata a patria Pisa, altre Cortona o Firenze,
ed il pisano Antonio Zeli ino, altrove nominato Chelino o Celino; poi il fiorentino Francesco
del Valente o Tagliente, e, ultimo, Nicolò depentor. E stavano nella invidiata bottega Oli-
viero, Giovanni da Padova, Giacomo, figlio di Baldassare da Prato, che nel giugno del 1448
era soltanto lavorante, ma sette mesi dopo diventò disinolo, e Polo di Antonio da Ragusa
e Francesco di Antonio Piero, prima lavoranti, poi garzoni, senza occuparci dei manuali,
che non sono onorati del titolo di disipoto over garzon.

I discepoli o creati, benché non sieno pochi, pure non giungono, come si vede, al nu-
mero indicato al duca di Firenze da quel villanzone di Baccio Bandinelli, nato ventidue
anni dopo la morte di Donatello: «Alcuni che stettero con Donatomi dissero, che sempre
aveva nella sua bottega diciotto o venti garzoni, altrimenti non avrebbe mai fornito un
altare di Santo Antonio da Padua, con altre opere ». Ed il padre Gonzati, che pure non
aveva troppo la smania di sottilizzare, creò tre nuovi creati di Donatello, leggendo due epi-
 
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