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Archivio storico dell'arte — 2.Ser. 1.1895

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Fasc. IV
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Sant' Ambrogio, Diego: Di due marmi sopravanzati nell'antica Chiesa di S. Eufemia d'incino del XIII Secolo e di un altare d'Orvieto del XII
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https://doi.org/10.11588/diglit.19207#0244

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DI DUE MARMI E DI UN ALTARE 235

Se la chiesa fosse stata ricostrutta, come altre di Lombardia, tosto dopo quel disastro,
porterebbero i marmi d'Incino scolpiti quelle bestie mostruose di. cui tauto si dilettò la fan-
tasia degli artisti nostrali fin verso la metà del xn secolo, ed anche qualche anno poste-
riormente; ma nel secondo decennio del xiii quelle bizzarre concezioni scultorie potevano
dirsi abbandonate affatto, e, come a Morimondo, non sono che teste umane, o, al più, teste
d'animali simbolici che fornivano motivo di decorazione.

Se la data di questa piletta dell'acqua santa è sicura, perchè chiaramente scritta con
numeri romani sul bordo superiore, lasciano invece agio a diversa interpretazione le sem-
plici iniziali con segni di abbreviature delle sigle che le tengono dietro:

P.A.C.ME.F.

Le parole Anali me fecit danno però indizio attendibile che le iniziali precedenti si
riferiscano al nome dell'artista che foggiò il lavoro, che l'Annoni interpretò come un Petrus
Antonius, e che, atteso il C che segue al nome, potrebbe meglio leggersi come Petrus ar-
tifex commacinus me fecit.

E chi sa quanto diffusa fosse la corporazione di quei modesti ma valenti operai comacini
che nei primi secoli dopo i! Mille attesero, con tanta valentìa ed amore, alle pristine costru-
zioni lombarde, ed andavano orgogliosi di incidere, sulle manifestazioni dell'ingegno loro,
il nome non solo, ma spesso la qualifica per appunto di artifex o magister commacinus,
non troverà troppo arrischiata l'interpretazione.

Notisi poi che l'artificiosa forma di far quasi parlare il marmo per attestare l'artista
che l'ebbe a foggiare, era caratteristica per l'appunto dell'arte dei comacini nel xn secolo,
e ognuno ricorda a questo proposito il marmo del tempio di Sant'Ambrogio colla leggenda:
Ardericus puer me fecit, o l'altro più spesso menzionato, e che leggesi sur uno dei capitelli
rimasti nel Museo archeologico dell'antica chiesa lombarda di Aurona: Juiianum me fecit sic
pulchrum. Ed era l'artista, in quest'ultimo caso, che, pur modesto com'erano in genere questi
operosi lavoratori, pei quali il solo nome, Adam, Petrus, Julianus, bastava per lo più a titolo
di soddisfazione personale, si compiaceva pubblicamente, concerta ingenuità, della venustà
dell'opera eseguita!

Di maggior importanza, sotto il rispetto scultorio, è nella chiesa d'Incino di cui discor-
riamo il frammento marmoreo sopravanzato dell'antica chiesa del secondo decennio del
secolo xiii, e che trovasi ora collocato in una nicchia al disopra della porta maggiore, di
fianco al campanile.

Della larghezza di 30 centimetri, ad un dipresso, e dell'altezza di circa 40, ò grosso-
lanamente scolpito in questa specie di capitello, quale si rivela anche per la forma legger-
mente trapezoide, un Redentore o Cristo arcaico senz'aureola sul capo, ma col libro del
Vangelo aperto fra le mani, poco sopra le ginocchia.

Nessun ornamento sulle vesti all'infuori di un semplice ghirigori sulla tunica che gli
ricopre le gambe, non distinte l'una dall'altra che da una linea mediana, con altre due
linee convergenti ad angolo sotto il libro spalancato.

Oltremodo caratteristiche poi sono le due palme dal fusto profondamente striato a spirale
e dalla cima fronzuta rappresentata da un ciuffo di foglie d'olivo dal tipico intaglio secco
secondo l'uso dei bizantini, e sulle quali posano leggermente due mistiche colombe intagliate
rozzamente colla stessa arte, e volgentisi entrambe col becco verso la testa del Redentore.

Secondo le interpretazioni più in vigore, trattandosi di uccelli posantisi sopra una palma,
dovrebbesi ritenere abbia l'artista voluto riprodurre la fenice, simbolo di risurrezione; ma
la forma e l'espressione, per così dire, del disegno, accennano piuttosto a due colombe.

La scultura, più che nel marmo, è foggiata in quel calcare dolomitico di Arona ten-
dente al rossiccio, che per l'aspetto della grana e frattura si avvicina assai al comune saltrio,
ma che meglio conserva per anni ed anni le traccie del lavoro dell'artista. Basta a dimo-
strarlo il buono stato di questo frammento scultorio che doveva ornare l'antica chiesa fino
 
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