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Archivio storico dell'arte — 3.1890

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Fasc. IV
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Dollmayr, Hermann: Lo stanzino da Bagno del Cardinal Bibbiena
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https://doi.org/10.11588/diglit.18089#0290

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HERMANN DOLLMAYR

277

colpita al cuore con un dardo. Amore le sia accanto appoggiato al suo arco e la guarda furtiva-
mente, mentre essa gli appoggia languidamente il braccio sulla spalla. L'argomento è preso dalle
Metamorfosi di Ovidio, lib. X, v. 525-26, ove il poeta, come introduzione alla favola di Adone, ci
narra il fatto con le seguenti parole:

namque pharetratus dum dat puer oscula matri,
inscius extanti destrinxit harundine pectus.

Egli continua il racconto dicendo:

capta viri forma non jam Cythereia curat
litora, non alto repetit Paphon aequore einctam
piscosamque Gnidon gravidamque Amathunta metallis;
abstinet et caelo: caelo praefertur Adonis.

Con Adone la dea va alla caccia attraverso le selve e, stanca ben presto dell'insolita fatica, siede
accanto a lui all'ombra d'un pioppo :

et requievit humo pressitque et gramen et ipsum,
inque sinu juvenis posita cervice reclinis

sic ait, ac mediis interserit oscula verbis (verso 557 e segg.).

In questa posizione sono rappresentati dal pittore nella scena a sinistra nella parete laterale destra,
scena che può servire pienamente da illustrazione ai citati versi e che tralasciamo perciò di de-
scrivere; un confronto coi versi di Ovidio mostra che tutte le altre interpretazioni proposte per
questa scena, come Venere e Bacco, Venere ed Anchise, Acide e G-alatea, Angelica e Medoro, non
sieno esatte.

L'affresco dalla parte destra di questa stessa parete è ora distrutto perchè c'è l'armadio; però
io credo che una volta vi fosse dipinta Venere che si estrae ima spina dal piede. 1 Invece di
questa scena, nelle incisioni del Piroli e del Landonio vediamo Venere che si slaccia i sandali. Io
credo che la ragione sia questa, che il Piroli e, seguendo lui, il Landonio cercarono di sostituire
all'affresco perduto alcuna delle copie di Villa Spada che oggi si trovano all'Eremitaggio in Pie-
troburgo, dove in vero è. rappresentata Venere che si slaccia i sandali. Però l'incisione di Marco da
Ravenna, che fu senza dubbio eseguita sulle pitture dello stanzino e a cui io propendo a prestare mag-
gior fede, ci mostra Venere in mezzo ad un ridente paesaggio, che, seduta tutta nuda sotto un albero
su cui si è posata la di lei colomba, si estrae cautamente uno spino dal piede; qua e là germo-
gliano delle rose e più lontano a destra si vede pascere una lepre. In questa forma la pittura
sarebbe anche in relazione con la leggenda di Adone, non già con quella della versione di Ovidio
ma con quella che, come il Forster fece notare negli studii sulla Farnesina a proposito di con-
simili dipinte da B. Peruzzi nel fregio del primo piano di quella villa, proviene da una fonte greca
e narra che a Venere, che andava errando dopo la mol te di Adone, entrò una spina di rosa nel
piede e che con le gocce del suo sangue la dea cambiò le rose da bianche in rosse. Ad ogni modo
questa leggenda, come dimostra il fregio del Peruzzi, non era punto sconosciuta a quel tempo.
Con essa si chiudono le rappresentazioni della leggenda di Adone, e rimarrebbe soltanto a decidersi
la questione, se con la leggenda sia anche in relazione la pittura in cui vedesi Venere che attra-
versa il mare e se questa non sia anzi ispirata dai versi citati, in cui si dice che Venere, dopo
essere stata ferita da Amore, non cercò più, come una volta, Pafo e le isole, e quindi rappresenti
una di quelle gite che Venere faceva così spesso prima che s'innamorasse di Adone. Potrebbe ciò
essere confermato dal fatto che la pittura si trova prima della scena in cui è dipinto il ferimento
della dea. Per tal modo le cinque pitture formerebbero un tutto armonico e sarebbero in relazione
con l'antica statua di Venere che si doveva porre nello stanzino.

A questo gruppo se ne contrappone in certo modo un secondo, che consta delle pitture nella
parete della finestra rappresentanti gli amori di Pane e di Siringa e di quella sulla parete della
porta raffigurante la nascita d'Erittonio.

1 Incisione di Marco da Ravenna Baiitsth, XIV, 321.
 
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