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VOCI DI ETRURIA

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nità. Uno è il ponte della Badia. Più di un secolo
fa lo scavatore di Vulci, Vincenzo Campanari, rite-
neva questa audace, pittoresca costruzione di antica
età etrusca; oggi Armin von Gerkan ha dimostrato
che il ponte è romano nella sua interezza, non ante-
riore certamente ai primi anni del sec. la. C.
L’altro monumento è la pietra funeraria di Gaio
Settimio quadrumviro jure dicundo della vulcente co-
munità romana; oggi questa pietra è nella Glitto-
teca Ny Carlsberg presso Copenaga. Il busto di
Settimio quadrumviro a rilievo, con l’alta fronte,
con gli occhi severi, con le gote incavate e gli zi-
gomi ossuti, con la larga bocca sigillata dalle labbra
sottili, con le orecchie staccate e piatte, con le
accentuate canne del collo, ci dà la idea del forte,
volitivo civis romanus dei tempi repubblicani, quale
noi possediamo in altri monumenti funerari. Austeri
togati, la cui visione ci fa capire meglio l’ascesa di
Roma verso i fastigi dell’impero.
Voci di romanità dal terreno di Vulci: voci
forti, solenni, ammonitrici. Poi è il graduale ab-
bandono, è la sparizione della nobilissima città. Il
nome suo non è segnato, sia sulla carta della To-
scana di Ignazio e di Antonio Danti nella Galleria
Geografica del Vaticano della fine del cinquecento,
sia nella assai più antica tavola Peutingeriana. Sva-
nisce il ricordo di Vulci.
Mi ritorna insistente il pensiero: laddove oggi
è silenziosa campagna in sconsolato abbandono, era
 
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