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pittura o al sepolcro nella scultura. La Roma pontificia rappresentò un terreno assai
propizio a queste tendenze, perché qui l’intelligenza e l’abilità potevano consentire a un
ecclesiastico di scavalcare le barriere di classe per raggiungere ricchezza e alte cariche e
perché la corte papale offriva una particolare opportunità a umanisti amanti dell’arte.
Questa evoluzione tanto significativa per l’intera civiltà rinascimentale culminò nel pa-
lazzo progettato da Raffaello per se stesso nella primavera del 1520 (figg. VILI, 8-10).
L’artista morì prima che l’ambizioso progetto potesse realizzarsi. Le due piante ri-
maste non bastano a dare una chiara idea dell’organismo abitativo raffaellesco e di qua-
li fossero in esso le condizioni di vita. Desidero perciò soffermarmi in primis su un altro
palazzetto, di poco precedente, eretto un anno prima da Raffaello per un suo caro a-
mico, il camerlengo pontificio Giovanbattista Branconio dell’Aquila (figg. VII.2-6).
L’edificio, che nel XVII secolo avrebbe lasciato il posto al colonnato di piazza San
Pietro, è documentato esaurientemente da numerosi disegni4.
Chi nei primi anni del Cinquecento guardava da San Pietro verso castel Sant’An-
gelo veniva subito colpito da palazzo Branconio che spiccava sulla destra, distinguen-
dosi nettamente dalle modeste costruzioni quattrocentesche. Questo palazzo venne pro-
gettato per un dignitario di medio livello della curia pontificia, un ex orafo non
particolarmente ricco, privo del titolo di vescovo o di cardinale, e che si poteva permet-
tere solo un appezzamento di terreno relativamente modesto (circa 22 metri quadri) e
materiali da costruzione non troppo dispendiosi. Pertanto il marmo e il travertino era-
no relativamente scarsi, al contrario dell’ampio utilizzo di mattoni e morbido peperino
vulcanico. Ma che Raffaello, il massimo architetto dello stato pontificio e il più corteg-
giato artista d’Europa, si fosse imbarcato nell’impresa, non dipese certo solo dal desi-
derio di rendere un servizio all’amico.
Raffaello dovette capire che era possibile ripristinare lo splendore dell’antica Roma
solo se si riusciva a elevare a un alto livello architettonico l’intera rete stradale della città
e dunque tutto il contesto urbanistico. Ad attrarlo dunque dovette essere l’idea di erige-
re, su un’area ridottissima e con mezzi piuttosto limitati, un edificio capace di mettere in
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pittura o al sepolcro nella scultura. La Roma pontificia rappresentò un terreno assai
propizio a queste tendenze, perché qui l’intelligenza e l’abilità potevano consentire a un
ecclesiastico di scavalcare le barriere di classe per raggiungere ricchezza e alte cariche e
perché la corte papale offriva una particolare opportunità a umanisti amanti dell’arte.
Questa evoluzione tanto significativa per l’intera civiltà rinascimentale culminò nel pa-
lazzo progettato da Raffaello per se stesso nella primavera del 1520 (figg. VILI, 8-10).
L’artista morì prima che l’ambizioso progetto potesse realizzarsi. Le due piante ri-
maste non bastano a dare una chiara idea dell’organismo abitativo raffaellesco e di qua-
li fossero in esso le condizioni di vita. Desidero perciò soffermarmi in primis su un altro
palazzetto, di poco precedente, eretto un anno prima da Raffaello per un suo caro a-
mico, il camerlengo pontificio Giovanbattista Branconio dell’Aquila (figg. VII.2-6).
L’edificio, che nel XVII secolo avrebbe lasciato il posto al colonnato di piazza San
Pietro, è documentato esaurientemente da numerosi disegni4.
Chi nei primi anni del Cinquecento guardava da San Pietro verso castel Sant’An-
gelo veniva subito colpito da palazzo Branconio che spiccava sulla destra, distinguen-
dosi nettamente dalle modeste costruzioni quattrocentesche. Questo palazzo venne pro-
gettato per un dignitario di medio livello della curia pontificia, un ex orafo non
particolarmente ricco, privo del titolo di vescovo o di cardinale, e che si poteva permet-
tere solo un appezzamento di terreno relativamente modesto (circa 22 metri quadri) e
materiali da costruzione non troppo dispendiosi. Pertanto il marmo e il travertino era-
no relativamente scarsi, al contrario dell’ampio utilizzo di mattoni e morbido peperino
vulcanico. Ma che Raffaello, il massimo architetto dello stato pontificio e il più corteg-
giato artista d’Europa, si fosse imbarcato nell’impresa, non dipese certo solo dal desi-
derio di rendere un servizio all’amico.
Raffaello dovette capire che era possibile ripristinare lo splendore dell’antica Roma
solo se si riusciva a elevare a un alto livello architettonico l’intera rete stradale della città
e dunque tutto il contesto urbanistico. Ad attrarlo dunque dovette essere l’idea di erige-
re, su un’area ridottissima e con mezzi piuttosto limitati, un edificio capace di mettere in
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