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Museo italiano di antichità classica — 1.1884/​85

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Setti, Giovanni: Il linguaggio dell'uso comune presso Aristofane
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https://doi.org/10.11588/diglit.9011#0124

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IL LINGUAGGIO DELL'USO COMUNE

PRESSO ARISTOFANE

Se v'ha argomento che nel dominio della clas-
sica antichità sia tuttora, e forse per sempre, av-
volto in fìtte tenebre, è senza dubbio quello dei
linguaggi volgari. Si capisce : la loro sorte è fatale,
dacché una naturai legge assegnò il sopravvivere
e il tramandarsi soltanto alle forme elette elabo-
rate dall'uso degli scrittori e adoperate all'espres-
sione delle supreme idealità dello spirito. Oscuri,
al pari delle plebi che li parlarono, essi passano
nella storia senza quasi lasciar traccia, corrotti e
guasti dall'uso continuo. Eppure, alla tarda poste-
rità, indefessa indagatrice della coscienza nonché
delle forme delle civiltà antiche, il linguaggio par-
lato sarebbe il più fedele rivelatore dell'indole e
dei caratteri peculiari di un popolo.

Ciò spiega e giustifica in certo modo il tenta-
tivo, che a' nostri giorni si è fatto, di sollevare un
lembo del velo che avvolge l'inesplorato dominio.
Si è frugato nelle iscrizioni funerarie, nei graffiti,
e sopratutto negli scrittori, i quali, trattando argo-
menti umili, mirarono alla realistica rappresenta-
zione delle scene comuni della vita. L'attenzione si
rivolse naturalmente ai poeti comici e satirici. Ma
le difficoltà o le incertezze non mancarono. Con
che criterio si potevano discernere certe forme dal-
l'altre? Qual era il termine del paragone? In ori-
gine non v'ha una differenza essenziale e marcata
tra il linguaggio popolare e quello della gente colta.
Il fondo è comune, e le deviazioni si accentuano
gradatamente, a poco a poco. E poi: in certe forme
anomale o dissonanti dall'uso scritto possiamo so-
spettare una scoperta, laddove forse non s'ha che
a deplorare l'incuria o l'inesperienza del lapicida

o dell'amanuense. Oltre le fonetiche e morfologi-
che vi sono anche le differenze sintattiche e reto-
riche: anzi è qui dove meglio si rivela la felice
e grande efficacia del volgare. Se ciò è quel che
più ci seduce, non dobbiamo dimenticare che sulla
rude e potente spontaneità della espressione viva
è passata l'arte riflessa e trasformatrice dello scrit-
tore. Sicché non è il suono genuino, ma soltanto
un' eco che giunge per tal modo sino a noi. A que-
sto speciale valore è dunque necessario di ridurre
l'importanza e la qualità delle nostre ricerche.

Che gli antichi come gli odierni linguaggi aves-
sero, accanto allo scritto, un idioma volgare o
d'uso comune, è cosa che non si può mettere in
dubbio. I Greci lo chiamavano óidhxrog o più par-
ticolarmente rj slooOvìa óiàXsxroq •): mentre i La-
tini avevano una quantità di nomi per questo sermo
che Cicerone chiama plebejus (ad fam. IX, 21) o
quotidianus (id. I, 1), Plauto proletarius (Mil. glor.
v. 745), Gellio rusticus (N. A. XIII, 6) e Quinti-
liano vulgaris (XII, 10). Le divergenze si accen-
tuano più o meno, secondo le differenze sociali e
certe istoriche necessità di svolgimento. Nel latino,
per ragioni assai note di condizioni sociali e po-
litiche, questa deviazione si effettua assai presto
e così spiccatamente, che dopo un dato periodo il
ramo della lingua letterata intristisce, e assorbe
tutti i succhi vitali del tronco il ramo dell'idioma
volgare, donde poi trarranno origine le moderne
lingue neolatine. Un processo alquanto diverso ebbe

i) Aristot. Poetic. 22. Bhet. IH, 2. - Aristof. fr. 685
(edid. Kock).

Museo italiano di antichità classica.

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