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Museo italiano di antichità classica — 1.1884/​85

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Setti, Giovanni: Il linguaggio dell'uso comune presso Aristofane
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https://doi.org/10.11588/diglit.9011#0127

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- 116 -

nifestano già nel volgare del secolo di Aristofane,
ma sono ancora leggieri e appena notevoli, at-
teso il fino e puro .senso musicale che il popolo
conserva tuttora nella pronunzia. La quale si man-
tiene ancora schiettamente fedele ai segni che rap-
presenta, senza fusione dei suoni dittongali, o trac-
cia di quell'iotacismo che si accentua dipoi, e
diviene un carattere precipuo nella pronunzia del
greco moderno. Platone nel Cratilo (418, B) se-
gnala la differenza dell'antica dalla nuova pronun-
zia in un uso migliore che in quella si riscontra per
riguardo ai suoni dell' i e del S: notando incidental-
mente il fatto della prerogativa che hanno le donne
di serbare nella sua purezza l'antica pronunzia.
Platone il comico schernisce come barbara l'eli-
sione della gutturale tra due vocali nella parola
òXtyov pronunziata òXlov (fr. 168). Certo la pronunzia
doveva tendere già alla fusione di suoni uguali o
dissonanti. E nelle Nubi al figlio che pronunzia così
la voce àQ%auxcc Strepsiade rimprovera di essere an-
cora attaccato ai vecchiumi di una educazione ornai
antiquata (lsrub.v.821, edid. Meineke). ComeSocrate
riprende poi nel suo discepolo la sguaiata pronunzia
della voce xQt\uaio distinta ne'suoni aperti ed inalte-
rati (Nub.v. 870-873). La lingua dell'uso preferisce
già i suoni semplici, riducendo dittonghi e tritton-
ghi, e le forme contratte, per quella sua tendenza ad
una omogenea e razionale fusione. Così le forme
%sqì, Z%s, noBevóv, iTcórjGev, vóg.... che riscontriamo
nelle iscrizioni greche del tempo ci testimoniano
una particolarità fonetica che doveva esser propria
del linguaggio d'uso comune, sebbene non se n'ab-
bia esempio sicuro nelle commedie aristofanesche ')•
Inalterato è del pari il suono v nei dittonghi av,
sv; mentre poi verrà eliso nella pronunzia della
decadenza e consonantizzato in quella del greco
moderno. La crasi in Aristofane ha già una parte
singolarissima. L'uso ha reso fisse le forme iyolSa,
ovym, (ÓvOqoìits, t^firj, tiiueqov.... che ricorrono fre-
quentissime anche negli altri comici, e nelle quali
non si può vedere soltanto un effetto delle esi-
genze metriche. Notevole è la tmesi che la pro-
nunzia introduce nelle voci ovSsig e ovSs'v, le quali
non solo in Aristofane, ma in tutti gli altri comici
anche della commedia mezzana e nuova appajono
quasi costantemente divise nei loro elementi eti-
mologici: ovS' sic, ovS' ffa. Metatesi, scambii di con-

sonanti affini, alterazioni di gradi, affezioni o colo-
rimenti di vocali sono caratteristiche fonetiche che
presto si rivelano nel linguaggio dell'uso comune.
Forse ne sono esempì le voci fiQÓraxog, (Aristof.
fr. 934), Paravia, (Antif. ed Alessi, edid. Meineke,
p. 394), oqtvxoq (Filemon. fx.fab. inceri. 123) invece
delle forme corrette §drqaxog, nardvia ed oQTvyoq.

Anche nell'uso vivo le antiche lingue flessive
furono tenaci per quanto lungamente possibile nel
serbare incorrotti ed attivi gli organi vitali della
ricca flessione. Solo lentamente e assai tardi si pro-
dusse l'offuscamento dello forme declinate o coniu-
gate, sopperendo alla determinazione dei varii rap-
porti colle preposizioni o segnacasi, e coi pronomi
personali prefissi, e colle locuzioni perifrastiche.
Appena qualche segno di questo processo di dis-
soluzione e di analisi si rivela nel linguaggio po-
polare del tempo di Aristofane. Di questo fatto le
tracce non si riscontrano in lui, ma nei comici
contemporanei. Alcuni nomi alterano il genere,
come TtQÓGwrcov e ^vqóv, che sono usati quali nomi
maschili da Platone (fr. 250: 6 nqÓGwnog) e da Ar-
chippo (fr. 42: ó gvqóg). Il nome ydXa, ydXaxxog
semplifica dapprima la sua declinazione, poi irri-
gidisce e diventa invariabile. Abbiamo così ydXatog,
ydXan.... e poi ydXa senza distinzione casuale. Un
frammento di Ferecrate ci dà ydXan (fr. 108), ed
uno di Platone ci dà rov ydXa (fr. 238). In nomi
di doppio tema e quindi di declinazione mista la
lingua dell'uso sceglie le forme brevi o accorciate,
e su quelle rende uniforme ed omogenea la decli-
nazione. Nome come yvvq (temi yvva e yvvaix) il lin-
guaggio volgare declinò regolarmente: yvvrj, yvvfjg,
yvvji, yvirfv.... ecc. come ci è lecito dedurre dalle
forme ywi]v (acc. sing.), e yvvaC (noni, plur.) che
ricorrono in Ferecrate (fr. 91), in Filippide e più
tardi in Menandro, e si perpetuarono fino nell'uso
degli scrittori bizantini2). Altri nomi smarriscono
la flessione, o si usano come invariabili certe formo
declinate. Jelva o 6 Selva, col valore indeterminato
del latino qui-dam, si declinò un tempo, poi si rese
invariabile, e fu di uso frequentissimo, corrispon-
dente al nostro " cosa „ o " la cosa ,, in senso
indeterminato. Tò Selva si diceva ogni qualvolta
non occorresse subito l'idea o la parola propria
a significarla, (scoi. Pac. 268 : . . . ori ydg ti Sv-
GXfQtg [.u'XXofisv Xéymv, sìmOa^e}' tovto noordatisiv,

») Ved. Kaibel, Epigr. graec. ex lapid. conlecta. Bero-
lini, 1878: n.! 24, 64, 43, 22, ecc.

2) Cfr. Meineke, Comicomm graec. fragmenta II. 2,
pag. 834.
 
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