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Museo italiano di antichità classica — 1.1884/​85

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Setti, Giovanni: Il linguaggio dell'uso comune presso Aristofane
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https://doi.org/10.11588/diglit.9011#0132

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dei tanti che parlando aggiungono interrogazioni
a interrogazioni (fr. 871). Lo si raffronti al latino
quid? e al nostro " che? „ " che cosa? „ (florent.
" icchè? „) di cui abusiamo nel discorso familiare.
Esso valeva " che cosa? „ e " perchè? „ ed an-
che " come, in qua! modo ? „ (cfr. il latino qui nel
valore di quomodo):

Acarn. v. 959:

JlXUWTtoXl.

— ti sGti; ti (te fiwGzqsTg;

Nub. v. 1378:

......ti a eiTtco; (Passow. wie soli ich

[dich nennen?)

Soggetti ad alterazione propria degli idiomi vol-
gari sono i reggimenti dei casi nelle preposizioni.
La lingua greca poi'con quella sua larga facoltà
di costrutti dovea presto dar luogo a scambi ed
a confusione. Esempì non ne troviamo nel testo
aristofanesco: ma sono frequentissimi nelle iscri-
zioni sepolcrali del tempo, ed il Kàibel riconosce
appunto dall'uso volgare siffatte anomalie. In una
iscrizione di Mitilene (C. I. G. 2169: Kaibel, op.
cit. n° 828) il óià è costruito col dativo: dì ègya-
Tivaig Tcalafiausiv. Più tardi si trova anche il nqó
col dativo: nqò nvXaig e ttqò dónoiai (Kaibel,n°841).
Si usa Yiv coi verbi di moto, e Yelg con quelli di

quiete: <'ó%eto S" èv vsxvsaai____(id. n° 690), e slg

riìfi^ov xsTiiai (id. n° 124). Nè si dica sono semplici
errori del lapicida. Il lapicida sbaglia, appunto per-
chè inconsciamente segue e riproduce il linguaggio
dell'uso. Di preposizióni irrigidite e usate avverbial-
mente se ne hanno due esempì in Aristofane:

xàymys ttqoc. (Cav. v. 578; Ran. 416).

Di fisonomia tutta popolare è l'avverbio ncófiaXa
usato nel valore di oiSafiàg (Plut. v. 66 e scoi.).
Caratteristico è il significato che l'uso dette all'av-
verbio ovxmg, il quale preponevasi alla narrazione
di favole o storielle (tòv /ivdov (leg. twv fivOav)
7rQosTaTTov, scoi. Vesp. 1177) nel senso del latino
" olim „ e del nostro " una volta, „ o " e così „
" dunque „, talora anche rafforzato dal note.

Lis. v. 785: ovzcog rj vsaviGxog____

Cfr. Plat. Feclr. 237: rjv ovtoo órj naìg....
Vesp. v. 1182: ovtw tv or'rjv fivg xaì yaXfj____

Il congiungere più avverbi per dare maggior forza
all'espressione notano gli scolii essere àttixòv è'dog
(Plut. scoi. 25), mentre non è che un tratto carat-

teristico del linguaggio comune, il quale suole espri-
mere idee e sentimenti in modo iperbolico: nàvv
Gqódqa; nàvv xaXwg; vaC vai; avxixa nàia ecc. La
particella oti perde il suo valore di congiunzione
nelle forinole oìó* oti (Lis. v. 154. 764), sv laB" ori
(Tesm. v. 12), dfjXov oti (Antif. fr. Butal.) adope-
rate così assolutamente in fine di frase; come
àXXà, perduto il suo valore avversativo, serve co-
munemente nel dialogo per riprendere il discorso

0 per passare ad altro ordine di idee (Nub. v. 860 ;
Ucc. 1121; Ran. 57. 58; Eccl. 477). ciìg, ofimg sono
pure pleonastiche, ed introducono soltanto la pro-
posizione nei casi come: Nub. v. 209 ; Ucc. 83 ecc.;
atta accompagna i numerali o gli aggettivi quan-
titativi (Ran. v. 173; Ucc. 1514). Le particelle yé,

té, toi, vai, di)____ecc., così frequenti nel dialogo,

servono a modificare e colorire l'idea nelle sue più
leggiere e fini gradazioni.

Nè si può negare, che non fosse del linguaggio
volgare tutta quell'infinità di voci onomatopeiche
che risuonano nel dialogo aristofanesco, cui danno
la vivacità, il movimento e la freschezza della vita
reale, quasi prodigiosamente trasportata e fermata
nel dramma. Interiezioni e voci, che sono identiche
in ogni lingua, perchè ogni lingua imita la natura.
Incominciamo dai suoni dei bambini. Come Nausi-
caa si volgeva al padre colle tenere parole nànna
(piXe (Od. VI, 57), così nànna chiamano il padre

1 figlioletti del dramma aristofanesco (Eccl. v. 645 ;
cfr. Filemon. fr. Metion, 2), o nannia (Vesp. v. 297;
Pac. 128) e la madre [làmia o na\i\xia (Lis. v. 879).
Poi gridano nànnav e ^afi/xàv quando vogliono
del pane (Pac. v. 120; Nub. 1383; Callia fr. 29); e,
quando vogliono bere o soddisfare qualche altro bi-
sogno, si fanno capire colle grida fiqvv (Nub. v. 1382)
e xaxxàv (Nub. v. 1384). Un frammento aristofa-
nesco datoci da Fozio ci conserva la voce aslv, che
le nutrici adoperavano pei bimbi otav aita (ìovXov-
tai ovqfjGai (fr. 850). Poi vengono i tanti epifonemi
o le esclamazioni (ngoa^Os'yfiata) di allegrezza, di
dolore (axstXiacrfiatixà, Oqrjvrjtixà), di sorpresa (Oav-
naatixà), di disprezzo, di ira, che spesso si sot-
traggono al metro come preludio od accompagna-
mento della parola. Diamo qui un saggio di tutte
quelle che occorrono in Aristofane:

à, a (Plut. V. 1052).
v v v v.... (Plut. 895 e scoi.).
Ir) ir] Ir] (Pac. v. 195 e scoi.).
è'a sa (Tesm. v. 699).

Museo italiano di antichità classica.

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