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Museo italiano di antichità classica — 1.1884/​85

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Setti, Giovanni: Il linguaggio dell'uso comune presso Aristofane
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https://doi.org/10.11588/diglit.9011#0140

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(Tesm. v. 928); proverbio che l'uso accorciò nel-
l'espressione laconica ovóèv eanaas (Vesp. v. 175).
Così nel popolo rimasero proverbiali i modi con
che i sacerdoti lamentavano la povertà della vit-
tima offerta: ovòèv allo nXrtv yévewv % i<frt xal
xéQctra (Ucc. v. 902 e scoi.). La stupidità e la
musonerta significavano col paragone degli ani-
mali, cui quello qualità sono proprie: Pqadvg----

wtìnsQ ovog (Ucc. v. 1328) ; a7toxqivófisvog xò na-
QÙnav ovàè yov (Plut. v. 16 e scoi.); mentre chia-
mavano Mot (Nub. v. 1202; cfr. Terent. Heaut.
IV, 73 : " quid stas, lapis ? „ Plaut. Poen. I, 2. 78),
ccqiOiiÓc, nQÓflctv àXXcog, cli.i(foqì,g vsvrj(ffiévot (Nub.
v. 1203) tutta questa gente che vive stupidamente,
a mo' di gregge o di cose inanimate. Con ima-
gine sensibile designavasi il principio e la fine di
un'azione: ex xtòv ttoócòv sg ttjv xsyal^v (Plut.
v. 650). Arguta e comica è la locuzione velv iv
vàtg £j-i§aaiv (Cav. v. 321). Colla più olimpica indif-
ferenza e sicumera-rispondeva il greco ad ingiurio
che non lo ferivano: qóóa p* siqrjxag (Nub. v. 910);
nàxxs TtolloTg xoTg (iódoig (Nub. v. 1330); ovvero:
H^Xa xal QÓag Xéyetg (Epil. fr. 2); — o a minacce
che non lo spaventano: ttoIIcòv èycò dgi'iov ìpóyovg
uxijxoa (Vesp. v. 436). Per indicare il colmo dell'im-
possibilità di un dato evento dicevano : nqtv xev
Ivxog oiv vfievaiot (Pac. v. 1076. 1112), oppure:
obnoxs nou'jGsig xòv xaqxivov oqOù fiaSi£eiv (Pac.
v. 1083). In svariati modi alludevasi all' inutilità
di certa impresa :

tidov tipeig (Vesp. v. 280).

nlivtìov nlvvsig (scoi. Vesp. 279).

Xvtqocv noixtlleig (id.).

tìg vÓ(ùq YQàysig (Plat, Fair. 276, c. — Lue.

[Catapl. 21).

AìOùma Isvxdveig.

xaxà Qaldxxrfi, 0 dg vówo (jrrtQsig.
ovdénox av dsùjg lelov xòv xqaxvv iylvov

(Pac. v. 1086).
I cisposi mandavansi burlescamente a guardare

sìg xvvòg 7ivy>)v xal xqicòv dlomtxùìv (scoi. Eccl. 255).
La superstiziosa credenza nella virtù fatidica o di-
vinatrice degli uccelli originò il detto :

ovàelg otiev xòv Orfiavqòv xòv i}iòv nh]v si' xtg

[aq oqvig (Ucc. v. 601).
Una rondine non fa primavera : X£hdwv èao
ov Ttoiet (scoi. Ucc. 1117). Un ideale di vita serena
e gioconda racchiudevasi nella frase 'Alxvon'óag
rjnéqag dyetv (Ucc. v. 1594). Ridicolo era il detto

al ovov nóxai (Ran. v. 186). La curiosità impa-
ziente ed avida degli uditori è assai realistica-
mente rappresentata dalle locuzioni èri dxgcov xcòv
TTvyiói'cor, 0 ère dxqwv òvvyjiov dxovsiv (Acarn. V. 638).
Nello seguenti espressioni molto efficaci par di
sentire il tono burbanzoso di chi fa minacce esa-
gerate : ("te ne darò tante, che invidierai la l'ielle
delle tartarughe „) :

tpr/fi èya

rag %slu>vag iiaxaoieìv 6e xov dtquaxog

(Vesp. v. 429).

oppure : (" ne buscherai sì, che non avrai bisogno
di cipolla per piangere „) :

xqofifivòv xaq ovx è'ósi. (Lis. v. 798).

L'austero senso del proverbio mitiga il popolo
col motto arguto e ridicolo, formando così un bi-
sticcio o giuoco di parola. " Dare in ciampanelle „
{h]Qtìv)i " smarrir la ragione „ esprimeva il greco
colla frase ano vov xaxamnxm^ che diviene comica,
se pronunziata con una leggiera alterazione d'ac-
cento ari ovov xaxanmxsiv (Nub. v. 1273 escol.). E
il popolo si compiace assai di questi bisticci. I La-
tini avevano una frase a posta per designare que-
sti giuochi di parole: nomen joculare; e sono noti i
detti tramandatici da Cicerone e da Vellejo Pater-
colo : " quae rara cara „ — " lenones, leones „ ecc.
I soldati romani scherzavano sui prenomi e sul
nome di Nerone col bisticcio : Biberius Caldus
Mero. Si pensi all'uso e all'abuso dei moderni ca-
lembourgs. Così i Greci scherzavano KQÓvog ovog ;
e il popolo traeva facile motivo di arguzie da
scambi fonetici o da leggiere alterazioni di voca-
boli o dalle assonanze. Gli scolii le spiegano colle
frasi naqd yqdfi{ia xwfiojdel, 0 òvo^iaxonoisT, oppure
naQrjisxai ; e quest'ultimo era il partito più ovvio
e più abusato. Qualche traccia di questa vena
umoristica popolare, indipendentemente dalle altre
risorse comiche dell'arguto poeta, conserva il dia-
logo aristofanesco. Nei Cavalieri la tribù dei Cre-
pitìi (Kqwnidai) è denominata dei Klwnidat, con
manifesta allusione satirica alla furfanteria di que-
gli abitanti: (scoi. Cav. 79. Zncagev ovv uaqd xò
xlsTixeiv). E Pistetero, giunto nel regno degli uc-
celli, bisticcia sciaguratamente sull'affinità formalo
delle due voci nóXig e nóXog (Ucc. v. 179-184). Ma
più scellerato è il bisticcio d'un frammento aristo-
fanesco datoci da Fozio e da Suida, e che suona :

Ta Tavxdlov xàlavxa xavxali'^sxai

(fr. 711, edid. Didot).

•Vkjco italiano di antichità classi,

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