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Accademia Nazionale dei Lincei <Rom> [Hrsg.]
Monumenti antichi — 28.1922

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Pace, Biagio: Il tempio di Giove Olimpico in Agrigento
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https://doi.org/10.11588/diglit.12555#0100

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181

IL TEMPIO DI GIOVK OLIMPICO IN AGRIGENTO

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niensione del tempio. Nel riferire i ricordi della sua vi-
sita ad Agrigento avvenuta nel 172;"), l'erudito olandese
dice : « Et primo loco occurrerunt ingentia sane saxa :
sed piane disiecta, ut ichnographia aedificii nullo modo
vel conjectura adsequi potuerit ». Riportato quindi il
passo del Fazello ed i versi leonini dell'anonimo, ne
fa la critica, ritenendo fantastico lo stemma invocato
dal Fazello (ed un puteale simile veduto dal D'Orvillc
presso il Canonico Biancuceio): «ex silcntio Diodori
Siculi satis certum, qui, cum tam amplam des'cri-
ptioneni huius templi dederit, non omissurus certe era!
Arehitecturae opus tam mirabile et insolens ». Ritiene
che la « favola da fanciulli » narrata dal Fazello possa
esser sorta da un frammento del frontone scolpito con
la gigantomachia, cui allude Diodoro, escludendo
l'esisterr/a dei giganteschi telamoni.

Gli stessi concetti riproduce nella sua grande opera
Le antichità siciliane, di cui furono editi soltanto due
volumi, riguardanti esclu sivamente Agrigento, il Padre
G. M. Pancrazi, teatino di Cortona; egli riporta una
traduzione del passo di Diodoro, ed accenna alla no-
tizia dataci dal Fazello, reputando « non mai credi-
bile.... che una porzione delle Muraglie... fosse appog-
giata a tre Giganti » perchè la cosa non è detta nella
descrizione così accurata di Diodoro, e suppone invece
«che quelle mura» che si dice appoggiate ai Giganti
fossero gli Avanzi di quel bellissimo Artificio della
Guerra de' Giganti con Giove... e che quegli Antichi
avessero voluto rappresentare tal favola, col fare dei
Giganti, che portassero sulle spalle delle Torrj ».

Aggiunge, il Pancrazi che « presentemente non si
vede altro, che un mucchio di sassi » tra i quali il suo
collaboratore tecnico, barone Salvatore Ettore, scopri
un triglifo, ed il Pancrazi stesso uno di quegli incavi
a ferro di cavallo, di cui spiega acutamente l'esatta
funzione tecnica. Desolato di null'altro vedere all'in -
fuori di questo mucchio di pietre il Pancrazi, nell'occa-
sione che si dava principio per opera di Monsignor
Gioeni, vescovo di Girgenti, alla costruzione del Molo
diPorto Empedocle, suggerì, in base ad un criterio che
a noi sembra realmente mostruoso, di adoperare nella
fabbrica le pietre del tempio « ad oggetto di poter rica-
vare la pianta del medesimo..., e di rinvenire qualche
pezzo di Colonna, per confermarci in questa maniera di
quanto ci era stato da Diodoro registrato, ma per vari
fini non potè avere efletto tal nostro premuroso desi-

derio ». Purtroppo però un tale strano suggerimento fu
accolto di lì a poco, e la colossale rovina che sapien-
temente frugata ci avrebbe dato tutti gli elementi del
meraviglioso tempio, fu fatta ciecamente smontare dal
Gioeni e adoperata nel progettato molo, senza che al-
cuno almeno curasse di tener nota degli elemanti sco-
perti. Neanche il Pancrazi sembra sarebbe stato in
almeno per la parte grafica, di conservarci gran che
a giudicare dalla grande veduta delle rovine, presa
da sud (1), ch'egli ci dà, la quale, come tante di quel
libro, risulta di assai scarso valore (fig. 2).

11 Winckelmann, nelle sue «osservazioni sull'archi-
tettura degli antichi », valendosi di alcuni dati comuni-
catigli, «dal signor Roberto Mylrie scozzese grande
amatore dell'architettura» tratta di proposito degli
antichi templi di Girgenti, che aveva invano desiderato
di vedere (*). Egli dedica molte pagine ( IL5-28J al no-
stro tempio, riprendendo le osservazioni del Pancrazi.
cui rimprovera di non aver saputo vedere abbastanza;
e comenta il noto passo di Diodoro, utilizzando tutti'
le constatazioni di fatto che furono possibili al suo
informatore. Pensa per induzione che il tempio sia stato
esastilo e propone una stranissima spiegazione delle pa-
role del testo di Diodoro xm allmv ì'j fis'xQi io/pi' x%X.
intendendo che gli agrigentini «fabbricarono accanto
ad esso delle case a segno che ne fu tutto circondato »,
stranezza giustamente ripresa dal traduttore abate
Fea (p. 125, note), il quale intese pel primo che qui si
alludesse a quella chiusura con muro tra pilastro e pi-
lastro, che rende il nostro tempio « falso alato ». Ciò
non era ancora riuscito a comprendere nessuno dei
tanti studiosi nò alcuno di quei viaggiatori, die in
quel torno visitando la Sicilia scrissero del nostro tem-
pio, dandone anche piante immaginarie ed in ogni
modo errate, specie nel numero delle colonne, a co-
minciare dal barone Rieclesel, che misurò con atten-
zione gli avanzi, ricercando e riconoscendo fra le ro-
vine ammucchiate qualche membratura architetto-
nica (3), fino al Quatremére de Quincy ( 1770), al prin-

(') Giuseppe Maria Pancrazi, Antichità Siciliane spiegate,
Tomo II, Napoli, 1752, pp. 77-81 e tavola 7.

(2) Storia delle arti del disegno etc. ed ital. Fea, voi. Ili,
Roma, 1784, p. 107.

(3) Reise durch Sicilien. Zurigo, 1771, lettera la diretta al
Winckelmann, p. 4G segg.
 
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