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Dante; Wiese, Berthold [Hrsg.]
La Divina Commedia — [München], 1921

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https://doi.org/10.11588/diglit.36538#0321
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O diurna uirtù^, se mi ti presti
tanto^ che t'ombra det beato regno
segnata net mio capo manifesti^
Venir uedra'mi at tuo ditetto tegno
e coronarmi attor di quelle foglie^
che ta materia e tu mi farai degno.
Sì rade uotte^ padre^, se ne coglie^,
per trionfare o Cesare o poeta^
cotpa e uergogna dett'umane uogtie^
Che partorir tetizia in su ta beta
delfica deità douria ta fronda
peneia^, quando atcun di se asseta.
Poca fauitta gran fiamma seconda:
forse dietro da me con miglior ucci
si pregherà perche Cirra risponda.
Surge ammortati per diuerse foci
ta lucerna det mondo; ma da quetta
che quattro cerchi giunge con tre crocr,
Con miglior corso e con migliore stetta
esce congiunta^, e ta mondana cera
più a suo modo tempera e suggella.
Fatto auea di tà mane e di qua sera
tat foce quasi^, e tutto era tà bianco
quello emisperùx, e t'attra parte nera^,
Quando Beatrice in sut sinistro fianco
oidi riuotta^ e riguardar net sole:
aquila sì non gli s'affisse unquanco.
E sì come secondo raggio suote
uscir det primo^, e risatire in suso^
pur come peregrin che tornar uuote;
Così dell'atto suo^, per gti occhi infuso
nett'imagine mia^it mio si fece;
e fissi gti occhi at sote oltre nostr'uso.

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