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Napoli nobilissima — 1.1892

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RIVISTA DI TOPOGRAFIA ED ARTE NAPOLETANA

103

LA FLORIDIANA
11.
La Villa.
La Villa Floridiana, posta sull’incantevole collina del
Vomero, ispirò ad Augusto Platen, il dolce poeta tedesco,
alcuni bellissimi distici che io non mi attento di tradurre;
perchè credo si possa ripetere per tutte le traduzioni poe-
tiche quello che Mercier diceva di Orazio: Traduire Ho-
race c’est comme trans vaser du champagne: la mousse fuit.
Platen s’era montata la fantasia, visitando questa villa do-
nata da un re alla sua donna; ed il golfo ricco di vele ed
il fumante Vesuvio che di lassù gli si paravano dinanzi,
strappavano al suo cuore di poeta un grido d’amore. In-
vece un’amara parola ispirava questa villa al Colletta, il
quale dice ch’essa fu fatta da un tal Lulò, favorito di
Maria Carolina, a scopo di libidine. Ma il Colletta, come
al solito, si lascia trasportare dalla rettorica giacobina e
non pensa che, a costruire una villa come quella, occor-
reva tanto tempo, che finita la villa poteva esser finita
anche... la libidine.
La villa aveva appartenuto al Saliceti, ministro in Na-
poli ai tempi dell’invasione francese, il quale ne fece l’ac-
quisto nel 1807; poi era passata in eredità al genero di lui
principe di Torcila. Essi l’avevano ampliata ed abbellita
così da renderla la più bella della collina prediletta al Fon-
tano e al Panormita : la collina ove passò giorni tranquilli
fra i suoi diletti studi Giovan Battista della Porta e dove
Salvator Rosa, benché sofferente, pure s’infiammava con
la bizzarra fantasia allo spettacolo della natura. Al Vomero,
Pietro Giannone, dimorò a lungo vagheggiando quegli
ideali politici dei quali doveva essere vittima.

(1) Giuoco vilissimo da sbirri lo chiama il Boccalini (Ragguagli di
Parnaso, Ven., 1680, II, 2). Si faceva con le carte. Cfr. Basile, Lo
Canto de li canti, a cura di Benedetto Croce, Napoli, 1891,1, 38, not. 44.

« al giocho de trionfetti (*), che si fa a rubbare et assassi- !
« nare, havendosi gettata la coscienza dietro le spalle.... ».
Dove chiaramente si allude al Fontana, di cui subito dopo
è detto : « poiché da per sé si vanta che in dieci anni che
« è stato in questa città si è fatto da quattro milia ducati
« di entrata più di quelli che.... ».
E con questa frase rimasta a mezzo, e che pure in parte
s’indovina, si ferma lo scritto, e mi fermo anch’io, senza
aver finito ciò che sulla scorta di documenti ho ancora
in animo di aggiungere intorno all’opera del Fontana in
Napoli.
Alfonso Miola.

La leggiadra casa è opera di Antonio Niccolini, e mi-
sura centosessanta palmi per centodieci. Il prospetto prin-
cipale guarda il mezzogiorno, e per due elegantissime scale
di marmo bianco che seguono il naturai pendìo della col-
lina si scende dagli appartamenti ai viali, ricchissimi di
alberi, di piante esotiche, di vasche, fontane e logge, dalle
quali, a seconda dei varii piani, carezzano lo sguardo per
diversi aspetti le bellezze del golfo.


(Da fotografia del Marchese Giuseppe de Montemayor).

Ad ampliare la villa, il re comprò qualche podere vi-
cino e fece costruire verso oriente la palazzina che chia-
masi Villa Lucia.
Per cavalcare il vallone, l’architetto Niccolini gittò un
arditissimo ponte che con la sua curva sveltissima, visto
da mare e da Ghiaia, ferma lo sguardo di tutti. Esso mi-
sura centodieci palmi di lunghezza alla base ed è alto
dal terreno sessanta due. Fu costruito con grande rapidità
e finito in pochi giorni, perchè l’architetto ebbe a temere
che il rassetto della fabbrica potesse farla pericolare.
Il re arricchì la villa di mille nuovi e capricciosi ador-
namenti : un teatrino all’ aria aperta, un tempietto, un
coffee-house, senza contare le serre. E volle animare il luogo
con uccelli d’ogni genere : cigni, pavoni, fagiani; e con
bestie selvatiche e feroci: cervi, caprii, tigri, orsi, leoni
etc. Ricordo ancora un vecchio giardiniere detto Mantiello,
morto di recente pel dolore della morte del suo ciuco.
Mi mostrava il braccio destro che gli fu lacerato dai denti
e dall’ugne di una tigre. E v’era, sino a poco tempo fa,
in una soffitta del palazzo, la pelle d’un leone che, scap-
 
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