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Ojetti, Ugo [Editor]; Palazzo Pitti [Contr.]
La pittura italiana del Seicento e del Settecento alla mostra di Palazzo Pitti — Milano [u.a.]: Bestetti e Tumminelli, 1924

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34

I PROSPETTICI
VENEZIANI.

stanza pittorica. Questo gli vien fatto, principalmente, volendo innestare allo stile giordanesco qualche solida
austerità pretiana. Abbandonando il colorismo di fortuna di Luca, sempre improvvisato, sempre fuggevole e
fievole come una nube di passaggio che piglia tutti i riflessi, egli propendette per il colorismo del Preti, che
rimaneva, anche nella deviazione, sempre convinto della ricchezza essenziale di quello caravaggesco. Non si
può negare che il Solimena riuscisse a conquistarsi e foggiarsi una maschera sua. Ma vi era veramente pro-
gresso e germe d'avvenire nei suoi accomodamenti cercati e trovati sul fondo della tradizione napoletana?
C'era da sperare, molto più da lui, quanto a fruttificazione ulteriore, e a parte il valore d'arte, che dal
De Matteis, per esempio, che gli stava a lato con pose di emulo? Nelle sue vene, traverso il Giordano,
c'era ancora il sangue di Pietro da Cortona. Si potrebbe dirlo un cortonesco « riformato »: la regola madre
riformata con certe addizioni di una posteriore regola provinciale. O anche « rinforzato » se vi sembri che
l'addizione sia stata d'energia e di vigore.
In una identica posizione di cortonesco riformato o rinforzato è a Venezia Sebastiano Ricci. Se vo-
lessimo seguire le annotazioni dei vecchi scrittori la sua biografia sarebbe la chiave e il commento della sua
arte. Viaggiando per tutta Italia e fuori egli sarebbe stato un'ape pittorica. Ma noi sappiamo bene che conto
è da fare, in arte, di queste formule a+b+c, se non ce ne viene dimostrata la rifusione che è rinnovamento.
In realtà quanto a programma decorativo il Ricci non aveva certo bisogno d'uscire da Venezia, per met-
terne insieme uno di suo genio. Lo aiutarono in questo Pietro da Cortona che egli potè vedere a tutto suo
comodo a Firenze, e Luca Giordano che potè conoscere a Firenze e a Venezia. Con loro, abbandonando
i gorghi profondi del colore veneziano, risalì in superficie e si dilettò nelle ambagi del lieto arabesco. Vi
trovò linee pronte sempre a rompere il passo regolare, in una instabilità di fremiti e in una irrequietezza di
direzioni continue; che si dilettavano a sconvolgere con ineducazione qualche panneggio mosso a drappeggiare
un nudo, e a scartare d'improvviso, come un puledro col ruzzo, trascinando un membro o un corpo di tralice
e di sghembo, imprimendo una deformazione impensata a qualche anatomia. Confesso che forse sto accen-
tuando un po' forte questa tendenza, che meglio sarà visibile dopo. Ma inizialmente essa vi è. Sarà vero
quel che dicono i biografi di un suo contatto col Magnasco a Milano? Come discepolanza no, chè la cro-
nologia non permette di crederlo. Certo il Magnasco gli avrebbe potuto insegnare come far calettare il co-
lorismo veneto dell'ultima attuazione Feti- Strozzi -Maffei nella grafica cortonesca. Ma infine le qualità del-
l'uno e dell'altra erano curiosamente così affini, che il punto del congiungimento avrà potuto benissimo tro-
varselo anche da sè. E v'era qui tanto avvenire quanto ne mancava alla posizione raggiunta dal Solimena.
3. - A Venezia fino dal primo momento la prospettiva si tramutò in poesia. I prospettici nati a Firenze
sotto l'ali del Brunellesco, e a Urbino sotto quelle di Piero della Francesca, rade volte si lasciarono andare
a sogni architettonici, e quelle poche riinventavano romanamente le loro città. Era un piacere solitario e ste-
rile. A Venezia fino dal primo momento i suggerimenti pittoreschi de' canali e de' ponti, delle calli e dei
campi erano talmente vivaci che bastava tracciare una cronaca edilizia d'un angolo della città, secondo mi-
sure e respiri di prospettiva, e il sogno era attuato. Ne fu ovvia la frequenza: e vi si compiacquero fin dal
quattrocento i Bellini e il Carpaccio.
La tradizione non mai abbandonata rifiorì in passione innamorata tra il sei e il settecento. Primo fu
Luca Carlevaris, portato a dipingere questi paesaggi di Venezia e della laguna più che altro dal mestiere di
far quadri da cerimonia. Il paesaggio naturalmente era sempre il meno, benché condotto in proporzioni tali
da non essere più semplice sfondo, ma ambiente e contenente. Fu a Roma. Comeché qualunque oggetto, il
più nudo e bruco, sia trasformabile in arte, ve ne sono innegabilmente di quelli che si offrono con più insi-
stenza e prontezza all'occhio dell'artista. Le rovine, anche per ragioni sentimentali, sono state in ogni tempo
di questi. Ma più del Carlevaris fu preso di tale amore Marco Ricci, un pittore che dovrà acquistare sempre
più importanza man mano sarà studiato e per il suo valore intrinseco e per l'influenza raggiata. Le vicende
 
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