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Archivio storico dell'arte — 7.1894

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Fasc. II
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Boni, Giacomo: Il duomo di Parenzo ed i suoi mosaici, [1]
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https://doi.org/10.11588/diglit.19206#0150

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108 GIACOMO BONI

alle chiese di Ravenna in grandezza soltanto, il duomo di Parenzo le eguaglia nella bel-
lezza d'esecuzione; in compiutezza di pianta, coli'atrio e il battisterio, le sorpassa.

La nave maggiore ha nove colonne per lato, sulle quali s'impostano archi semicir-
colari, ed è larga circa nove metri; le navi laterali sono larghe circa quattro metri e mezzo
e gli intercolonni misurano tre metri da asse ad asse; vale a dire che la larghezza della
nave maggiore è circa il doppio delle laterali e circa tre volte l'ampiezza di ciascuna ar-
cata; la lunghezza della navata, come è proprio delle basiliche, è quadrupla della sua
larghezza.

I fusti delle colonne sono probabilmente antichi, e taluni mostrano segni di adatta-
mento nel goffo collarino, ma i capitelli sono di fattura originale, disegnati e scolpiti per
quest'edificio. Sono di varia specie, ma portano tutti il pulvino bisantino col monogramma
di Eufrasio. Crii archi a tramontana sono adornati di stucchi a cassettoni che il prof. Eitel-
berger giudica opera del Rinascimento, ma per l'analogia che presentano cogli stucchi in-

PIANTA DEL DUOMO DI PARENZO

dubbiamente antichi di Ravenna e con altri di ■ questa stessa chiesa, appartengono proba-
bilmente alle decorazioni originali. 1

1 Sulle colonne che sorgono da uno stilobate di
recinzione della Stailo Annonae (ora chiesa di Santa
Maria in Cosmedin) girano archi di mediocre strut-
tura laterizia, che nell' intradosso conservano in parte
una decorazione a stucchi, cosi descritta dall'archi-
tetto G. B. Giovenale, presidente dell' Associazione
romana fra i cultori dell'architettura:

" Qui da un canestro di vimini sorge una canna,
e gli nascono ai fianchi un serto di spighe e un
getto di acanto, che, serpeggiando, s'incrociano più
volte. Là si rincorrono volute d'acanto, che portano
pere od altri frutti in luogo dei propri fiori. Altrove
s'incurvano festoni di foglie lanceolate e fuchi pa-
lustri stretti a fascio.

" Pochi e rapidi colpi della spatula e magari del
dito dovettero bastare a modellare questi ornati, che
un colpo vigoroso di stecca contorna e dettaglia. Ci
troviamo in presenza di una sommaria e commer-
ciale imitazione di antichi modelli ottenuta di ma-
niera con mezzi facili e convenzionali. È la remini-
scenza del classico, è la larghezza di fattura che
danno a questi stucchi un'apparenza simpatica che
li fa a prima vista sembrare di buona epoca. Non
furono, purtuttavia, usati spolveri o stampi calcati

da antichi esemplari. Guardate! I contorni sono scor-
retti, ma spontanei; ingenua, ma franca, è la mo-
dellatura, e manca nelle parti ripetute quella mono-
tonia che è tutta propria delle nostre meccaniche
riproduzioni.

" Le analogie stilistiche con gli stucchi della Pla-
tonia in San Sebastiano, che ormai i lavori del Ma-
rucchi, dello Stevenson, del Kanzler, hanno indub-
biamente dimostrato appartenere al secolo iv, ci
fanno certi che questi come quelli costituiscono veri
e preziosi esempi della plastica decorativa dei tempi
di decadenza. „

Verso la metà del v secolo Galla Placidia eresse
la chiesa di Santa Croce in Ravenna, pretiosissimis
lapidibus stradavi et gypsea metallo, sculpta (Agnello,
Lib. Pontif., I, 283), e credo che per materiali di gesso
scoditi voglia dire stucchi modellati, come quelli del
battistero metropolitano ravennate. Ad ogni modo,
il lapis specularis delle gypsearum fenestrarwm, men-
zionate da Leone Ostiense, non era un materiale
plastico, nè scultorio.

Un passo di Cassiodoro ricorda le principali ca-
tegorie di operai che s'impiegavano nel vi secolo
per costruire ed adornare un edificio monumentale:
 
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