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Napoli nobilissima — 1.1892

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RIVISTA DI TOPOGRAFIA ED ARTE NAPOLETANA

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Il Del Tufo ci descrive le donne dei pescatori, che s’af-
follano intorno alle carrozze, uscenti al passeggio fuori
della Porta di Ghiaia, e offrono in vendita la pescagione :
Lascio le donne poi di quel bel sito,
Che son sì gratiose,
Oltre l’altre gran cose,
Che possiede quel lito,
Che un morto sveglieria con appetito !
Onde lor proprio uscire
Vedreste, all’apparire
Delle carrozze o cocchi,
Con volti gratiosi e splendent’occhi,
Da le rustiche case,
Con tante belle spase
Di varii pesci hor hor dall'onda usciti,
Presi da lor mariti;
Che, facendovi poi quei dolci inviti,
Con uno sguardo al pesce e l’altro al fronte,
Nel rimirarvi attente,
Sarete, donne mie, più che contente
Di star con lor congionte.(i).
Le acque del luogo erano di mala digestione, onde avve-
niva che tutte le donne avessero i denti neri : pulcherrimae
mulieres sed nigro dente (* 1 2 3 4 5). L’aria, d’altra parte, ad genera-
tionem confert; la parrocchia di S. Maria della Neve con-
tava ai principii del seicento 1050 fuochi, con 6500 anime;
e dopo la famosa pestilenza del 1656, quando la popola-
zione di Napoli fu ridotta a meno della metà, era pur
cresciuta a 10000 anime (3).
Alla bontà delle acque provvide il Viceré Conte di Be-
navente (1603-1610), per opera del quale « vi si sono in-
« trodotte l’acque del nostro formale con molte fontane
« commode sili habitatori, e fan bel vedere, congionte
« quasi con l’acqua del mare » (4). E un’altra fontana,
poco in qua di Piedigrotta, vi fece aprire il 1614 il Conte
di Lemos, dove fu messa quest’iscrizione :
FILIPPO III. REGE
MARIS ORAM COELO AC SITU FELICEM
DUCTA AQUA PERENNI
PETRUS FERNANDES DE CASTRO
LEMENSIUM COMES PROREX
PUBBLICAE FELICITATIS STUDIOSISSIMUS
CURANTIBUS AEDILIBUS MDCXIV (5)
Indarno, invece, un precedente Viceré, il Marchese di
Mondejar, aveva tentato di rimediare nel 1579 a una pra-
tica poco pulita, per la quale le donne di Ghiaia erano
sfavorevolmente note. Il Basile paragona un certo cattivo

quelle degli Atti di S. Visita del Carafa (1542), e del De Capua (1584); delle
quali sono debitore al mio carissimo G. Ceci.
(1) Ms. cit., ff. 7-8.
(2) Capaccio, Il Forastiero, p. 1002; e Historia, T. Il, p. 34.
(3) Capasso, Sulla circoscrizione civile ed ecclesiastica, ecc., p. 105 sgg.
(4) Il Forastiero, p. 1002.
(5) Parrino, Teatro, sotto Governo di Don Petro Fernandez de Castro.

odore a quello che si sente « a la Marina de Ghiaia, la
sera, « quanno chelle magne femmene portano lo tributo
a lo maro d’autro che d’adure d’Arabia! » (*). E il Cor-
tese fa raccontare alla sua Rosa, l’eroina del dramma omo-
nimo, come fosse rapita dai Turchi:
Ecco quanno na sera
lea co chillo negozio a la marina,
Ne fuie zeppoliata da na varca
Che ghieva ncurzo.(2).
Onde le prime ore della notte, nelle quali si faceva
quest’armeggìo, si chiamavano ore fetorie, ore jettatorie; e
il Galiani, sulla fine del secolo scorso, commenta così tali
espressioni nel Vocabolario degli accademici filopatridi. (Fra
parentesi : sono lietissimo di lasciare all’arguto abate il ca-
rico della scabrosa spiegazione, per la quale mi par già di
sentirmi all’orecchio la frase di un certo sonetto napole-
tano : Lete, lèi) : « La nostra sconcissima architettura e cat-
« tiva distribuzione degli appartamenti, e la strettezza con
« cui si abita in una popolatissima capitale, rendono sen-
« sibile in tutte le case questo necessario servizio. Nel
« Borgo di Ghiaia non solo è sensibile, ma importuno;
« giacché, essendo quelle case edificate tutte a livello del
« mare, e per non esservi bastante caduta, non essendosi
« potuto nelle case costruir le chiaviche e condotti sotter-
« ranci, conviene che lo schifoso votamento si faccia alla
« marina, attraversando la nobilissima strada del pubblico
«passeggio. Chi sa se questa sconcezza è riparabile?» (3).
Gli abitanti del borgo di Ghiaia — dice la prammatica
del 1579 del Mondejar — « buttano al lido del mare cose
« sporche, le quali causano corruzione d’aere, e cattivo
« odore, oltre che pescandosi a quella riviera, i pesci che
« si pigliano, sono pasciuti delle dette immondezze ».
Per tali ragioni, il Mondejar disponeva che fra due mesi
si fossero fatti dai padroni di casa del borgo di Ghiaia i
necessari, sotto pena a ciascuno di oncie 25, e che, frat-
tanto, non si dovessero buttare le immondezze in mare,
« eccetto che la sera ad un’ora di notte sonata, e la mat-
« tina un’ora avanti giorno » (4). Se non che, due secoli
dopo, s’era allo stesso punto!, come si vede da ciò che
dice il Galiani. Più tardi, il carico di avvelenare quell’aria
fu confidato, non più alla processione delle magne femmene,
ma alle cloache, che sboccano tra il Chiatamone e Ghiaia (5).

(1) Lo Cunto de li Cunti, III, io.
(2) La Rosa, A. I, S. 2.
(3) Vocab. alla parola: ore fetorie. Dallo stesso fatto, secondo il Galiani,
sarebbe provenuta l’altra frase: la malora di Ghiaia. Tuttavia, fo notare che
ordinariamente questa frase significa strega. Onde il Fasano, Lo Tasso Na-
poletano, XVIII, 87: « cheste de Ghiaia », e cfr. nota. E ne La Milla, co-
media di N. Maresca, parlandosi di una vecchia e di sua figlia, della quale
ultima l’interlocutore è innamorato: «È na mmalora de Ghiaia, essa e la
mamma! » (a. II, s. 17; cf. anche II, 19).
(4) Collez. delle prammatiche, ed. Cervone, Tit. CXXXI, Pr. CVII.
(5) Cfr. sulla cloaca massima di Napoli il Carletti, Topografia della città
di Napoli, Nap. 1776, pp. 262-3.
 
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