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Napoli nobilissima — 1.1892

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RIVISTA DI TOPOGRAFIA ED ARTE NAPOLETANA

ii

misfatti » (J). E fino alla Torretta si vedevano sparse le
fontane messe dal Medinaceli (2 3). — Le grandi trasforma-
zioni erano avvenute tutte nei palazzi della Riviera. Sulla
spiaggia, poco di mutato da quel ch’era nei secoli andati.
Solo che nel 1759, Carlo III, « volendo far grazia ai
« Pescatori di rilevarli dal pagamento dell’esazzione che
« facevasi dal monastero dei SS. Pietro e Sebastiano »,
riscattò il jus piscandi, assegnando al monastero 315 du-
cati all’anno sull’arrendamento del tabacco (3).
In queste condizioni era Chiaia, quando Ferdinando IV,
con dispaccio degli 8 giugno 1778, ordinò la formazione
del nuovo Reai Passeggio, cioè di quella che ora è la Villa
Nazionale.
Continua.
Benedetto Croce.

IL SUCCORPO DI S. GENNARO
Carissimo Di Giacomo,
Cenando, pochi anni sono, feci restaurare la mia cap-
pella gentilizia nel Duomo di Napoli, conosciuta sotto il
nome di Succorpo di S. Gennaro, non parlai ad alcuno
delle opere che v’avevo fatto eseguire, non invitai alcuno
della stampa a visitarle e a parlarne. Non fu modestia la
mia, e non so dire io stesso quale sentimento mi movesse
a tener celata un’opera, che forse avrebbe interessato stu-
diosi ed artisti. Direi che il raccoglimento spirante da
quella cappella quasi sotterranea, quei marmi ingialliti dal
tempo, ma così animati dal sorriso dell’arte, quell’altare
semplice e severo, quella statua ginocchioni del Cardinale
Oliviero, tutta intera quell’opera grandiosa e gentile di
artefici, il cui nome è dimenticato, mi dicesse : questo è
luogo di silenzio e di pace.
Ed in quel luogo religiosamente severo, io mi traspor-
tava in tutto un glorioso periodo di storia. Ivi la fine del
XV e il principio del XVI secolo sposano, alla concezione
mistica e semplicissima dei quattrocentisti, l’ardire e l’ele-
gante festosità del Cinquecento. Quanto amore d’arte,
quanta magnificenza, quanta fede, quanta vita! Sì: quei
marmi non sono freddi, ma palpitano e parlano; e in
mezzo ad essi Oliviero Carafa, l’amico del fiero Fra Gi-
rolamo Savonarola, inginocchiato e pregante, sembra che
chieda al silenzio del tempio il riposo della sua vita av-
venturosa e guerresca. I santi in rilievo dai quadroni del
soffitto, gravi ed ispirati, e le armi di casa Carafa ed i

motti araldici, ripetuti con fierezza medievale, si fondono
stranamente con la mistica semplicità del luogo.
Eppure nel XVIII secolo ci fu chi non sentì l’incanto
di quell’arte purissima, e commise il sacrilegio di coprire
di marmi barocchi e colorati molte di quelle bellezze.
Come fui contento il giorno che la profanazione quivi
commessa dall’arte della decadenza, fu tolta per opera mia!
E quante ore ho passate in quel tempio ammirando l’arte
del Rinascimento, la quale ricompariva a mano a mano da
sotto i marmi che andavo togliendo! Io era così premiato
di ciò che facevo. La soddisfazione che dà la vista del
bello mi bastava, e benedissi quasi alla noncuranza napo-
letana per i patrii monumenti da te, caro Di Giacomo,
tanto spesso rimpianta. Essa mi lasciava solitario e tran-
quillo all’opera mia.
Trascorsero tre anni senza che alcuno avesse notizia
dell’opera compiuta : quando una mattina m’incontrai con
te che mi dicesti d’averla veduta e di volerne scrivere. Il
Corriere di Napoli infatti pubblicava nel mese di agosto
del 1891 un tuo bellissimo articolo, intitolato Napoli Sa-
cra, e così la restaurazione ignota e modesta fu resa di
pubblica ragione.
Nel tuo articolo scrivesti dell’antico altare tornato a luce
dopo circa due secoli ch’era stato sepolto sotto marmi
barocchi, delle porte di bronze liberate dalla barbara pit-
tura che le copriva, dei confessionali di legno stati tolti,
della balaustra anch’essa tolta, dei mediocrissimi quadri
che deturpavano e nascondevano le nicchie laterali; ed in-
fine, parlando dello spostamento della statua di Oliviero
Carafa, dicesi che io l’aveva restituita al mistero ed alla pe-
nombra del suo luogo primitivo, e di tutto ti compiacesti.
Ora l’idea di rimettere questa statua al suo vero posto,
non essendo stata approvata da tutti quelli che amano le
cose dell’arte nostra, e qualche persona, per la quale sento
rispetto, avendo detto che la statua figurava meglio nel
mezzo della Cappella, consentimi che io mi difenda. Pri-
ma di tutto, io non ho avuto in animo di fare altro che
restituire le cose al luogo dove Tommaso Malvita (o me-
glio, Sumalvito) da Como le pose C1). Ed invero il geniale
scultore, mettendo la statua quasi nascosta dietro l’altare,
non lo fece a caso : sentì che quel vecchio pensoso ed
orante dovesse stare, come tu ben hai detto, nella pe-
nombra e nel mistero. Ma chi da questa ragione, o per
dir meglio, da questo sentimento non si lasciasse convin-
cere, vada a riscontrare quello che Carlo Celano dice :
« Dietro all’altare vi si vede al vivo la statua del detto

(1) Topografia cit., p. 301.
(2) Vedi la grande pianta ms. della città di Napoli dell’anno 1798, che si
conserva nel Grande Archivio.
(3) Arch. di Stato, Monast. soppressi, carte citate.

(1) Che il suo nome fosse veramente Tommaso di Sumalvito risulta dai
documenti intorno a lui raccolti dal Filangieri, Indice degli artefici, II,
474-7; dove si ha notizia di opere eseguite da lui e dal figliuolo Gio. Tom'
maso dal 1484 al 1524.
 
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