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Napoli nobilissima — 1.1892

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RIVISTA DI TOPOGRAFIA ED ARTE NAPOLETANA

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una grande stizza pensando all’immenso numero di spro-
positi che ha saputo mettere al mondo, alla forza di vita-
lità della quale li ha dotati e a tutta la fatica alla quale
ci costringe per estirparli dai libri e dalle teste della gente :
fatica, ahimè, che non raggiungerà mai un pieno risultato!
Ma la mia stizza è temperata da un certo sogghigno,
che mi par di vedere spuntare sulle labbra di quella fi-
gura o di quel figuro. Certo, egli, dall’altro mondo, ride
alle nostre spalle!
*
* *
La storia dell’arte fu trascurata dai nostri antichi scrit-
tori municipali, che pure ci hanno lasciato tanti volumi di
storia politica e di storia letteraria, di storia ecclesiastica
e di storia delle famiglie. Fino al 1742-3, cioè fino alla
pubblicazione dell’opera del De Dominici, niuno ne aveva
trattato di proposito.
Un letterato napoletano, molto noto agli studiosi della
nostra letteratura della fine del XV e principio del XVI
secolo, Pietro Summonte — da non confondersi col po-
steriore Giovannantonio, autore della Historia — fu inter-
rogato una volta, nel 1524, da un suo amico veneziano,
M. A. Michiel, intorno agli artisti antichi e moderni di Na-
poli. Egli rispose con una lettera (in data 24 marzo 1524),
nella quale accennò con pochi e sicuri tratti alle vicende
dell’arte presso di noi, fino ai suoi tempi. Circa alla pit-
tura, menzionate le opere di Giotto e dei suoi scolari a
Napoli, seguitava: «da questo tal tempo non havemo
« avuto, in queste parti, nè homo esterno né paesano ce-
« lebre fino ad mastro Colantonio nostro». Mastro Co-
lantonio imparò i nuovi procedimenti artistici che si pra-
ticavano nelle Fiandre; ed ebbe per scolaro il famoso
Antonello da Messina. Al tempo di Alfonso d’Aragona,
furono in voga presso di noi le opere e gli artisti fiam-
minghi, Giovanni van Eyck, Ruggiero van der Weyden,
Pietro Christus, ecc. Al principio del secolo XVI, lavorava
a Napoli il veneto Paolo de Augustini, scolaro di Gian
Bellino. Passando alla scultura, accennava alle opere di
Donatello e del Rossellino a Napoli, all’ Arco trionfale
d’Alfonso, eseguito, secondo lui, da un Francesco Schia-
vone, alle opere di Paganin da Modena, e si fermava ai
due scultori suoi contemporanei, Giovan da Nola e il gio-
vinetto Girolamo Santacroce. Per l’architettura, nominava
Giuliano da Maiano e gli altri artisti toscani che lavora-
rono al palazzo di Poggioreale, Fra Giocondo da Verona,
e, in fine, Giovanni Mormando. Aggiungeva le notizie di
varii miniaturisti, intagliatori in legno, ecc. — Ma la let-
tera del Summonte restò sconosciuta fino alla fine del
secolo scorso, quando il Lanzi ne pubblicò qualche brano,
e inedita fino al 1861, quando il Cicogna la pubblicò, e

non integralmente, in una sua opera (0. Questo schema,
non destinato alla pubblicità, povero ma esatto, fu, dunque,
interamente trascurato.
Giorgio Vasari, che, com’è noto, dimorò e lavorò in
Napoli nel 1544, nello stampare nel 1568 l’edizione com-
piuta delle sue Vite, diè in essa un piccolissimo posto all’arte
napoletana. Quasi tutte le principali opere artistiche, esi-
stenti in Napoli, riconobbe ad artisti toscani : a Nicola e
Giovanni Pisano, ai loro scolari Fuccio e Maglione; a
Giuliano da Maiano, a Donatello, al Rossellino, a Luca
della Robbia, a Giotto e ai suoi scolari, ai toscani Pietro
e Polito del Donzello; il sepolcro del Sannazaro, fatto
circa il tempo nel quale egli fu a Napoli, attribuì, come altra
volta abbiam visto, al fiorentino Montorsoli. Degli scultori
napoletani dei suoi tempi nominò solo Giovan da Nola e
il Santacroce, e fece gran lodi di quest’ultimo; dei pit-
tori, Marco calavrese, ossia Marco Cardisco, e Cola del-
l’Amatrice (1 2 3). Ed espresse più esplicitamente questo suo
giudizio negativo sul valore della nostra arte, quando van-
tandosi di aver pel primo introdotto a Napoli una certa
foggia di lavorare in istucco, e discorrendo in generale
della sua attività di pittore in questa città, diceva : « Ma
« è gran cosa che, dopo Giotto, non era stato insino
« allora in sì nobile e gran città maestri che in pittura
« avessino fatto alcuna cosa d’importanza, se ben vi era
« stato condotto alcuna cosa di fuori di mano del Peru-
« gino e di Raffaello : per lo che m’ingegnai fare di
« maniera, per quanto si estendeva il mio poco sapere,
« che s’avessero a svegliare gl’ingegni di quel paese a
« cose grandi e onorevoli operare; e, questo o altro che
« ne sia stato cagione, da quel tempo in qua, vi sono
« state fatte di stucchi e pitture molte bellissime opere » (3).
Senza dubbio, il Vasari non discorse, o per negligenza o
per ignoranza, di varii artisti napoletani notevoli (e valga
per tutti Andrea da Salerno), e fu un po’ presuntuoso nel-
l’attribuirsi il merito di aver promosso una sorta di rina-
scimento dell’arte in Napoli. Ma i suoi torti si restringono
a questi soltanto; e accusarlo di partito preso nel voler
nascondere le glorie (quali glorie!) dell’arte napoletana, e di
malafede nell’attribuire opere napoletane ad artisti toscani,
mi sembra un’esagerazione e un’ingiustizia. Tuttavia, la
sua opera destò le ire fierissime degli artisti napoletani e
degli scrittori locali: e di quanta forza fossero queste ire
si può vedere dal fatto che esse persistono ancora vive,
e di tanto in tanto divampano.

(1) Vita di M. A. Michiel, Venezia, 1861. Fu ristampata dal Mi-
nieri Riccio, nelle sue Biogr. degli acc. Pontan.
(2) Vasari, Opere, ed. Milanesi (Firenze, Sansoni), I, 297, 303, 309,
389-91; II, 175, 246, 409, 470, 471, 474, 482, 484, 567; ecc. ecc.
v, 93-96, 211-5.
(3) Vasari, VII, 674, 675-6.
 
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