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Napoli nobilissima — 5.1896

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Croce, Benedetto: Leggende di Luoghi ed edifizii di Napoli
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i74

NAPOLI NOBILISSIMA

« vede ancora una stradicciuola o vicolo detto della serpe,
« quello stesso ove Gismondo fu per divina intercessione
« liberato dai morsi dell’angue. Esso è ancora posto tra
« giardini.... » Esiste, di fatto, presso S. Maria ad Agnone
un Vicolo della Serpe.
Tralasciamo il Diavolo di Foggia, ed eccoci al Monacello.
Il Dalbono ritrae con sufficiente esattezza il tipo di questo
folletto, disturbatore della quiete della gente pacifica, che
scaglia sassi, rompe vetri, strappa le coverte dal letto, e
regna da padrone in alcune case donde ha fatto fuggire
gl’inquilini disperati. Si sa l’aneddoto di quel tale che,
tormentato dall’invisibile monaciello, si risolse a sloggiare;
e quando ebbe mandata via la mobiglia, nell’andar via egli
stesso coll’ultimo carretto, incontrò sulla porta un picco-
lissimo uomo, con un zucchetto roseo sul capo e un vaso
da notte in mano, che, uscendo a paro con lui, gli disse
placidamente: Cambiamo casa! (’). Ma il monacello storico
sarebbe stato poi, secondo il Dalbono, Alfonso d’Aragona
che si recava, vestito da monaco, a corteggiare la bella
Lucrezia d’Alagno al palazzo Como al Pendino, che perciò
si sarebbe detto, d’allora in poi, abitato dal monacello!
La fontana, opera di Gian da Nola (1541), ch’era nel
mezzo della gran piazza di Porto, dà il titolo alla leg-
genda seguente: La Coccovaia di Porto. Così infatti si chia-
mava quella fontana quadrangolare, che aveva in mezzo un
gran monte, e in quattro grotte quattro statue, una delle
quali era Minerva con la civetta (in dialetto, cucco vaia).
Rovinata dalle cannonate del prossimo Castelnuovo nella
rivoluzione del 1647, fu poi rifatta in altra forma alla metà
del nostro secolo, ed è sparita interamente colla piazza di
Porto, nei lavori del risanamento, in questi ultimi anni (1 2).
« Cuccovaia di Porto dicesi di donna deforme », come av-
vertiva il Vocabolario Napolitano. Il Dalbono racconta la
storia di una fattucchiera Covaia (!), che aveva cercato di
sedurre una fanciulla a nome Barbara, per arrecarla alle
voglie di un signore spagnuolo. E tutto ciò sempre sul-
l’autorità « di un manoscritto da lui riscontrato ».
L’ultima delle tradizioni popolari del Dalbono è quella
di Provvidenza e Buona speranza.
I vecchi di cinquant’anni fa ricordavano ancora uno strano
mendicante che si era visto aggirarsi per le vie di Napoli
negli ultimi anni del secolo passato o nei primi del pre-
sente. « Non giovane, di forme colossali, con una parrucca
« bianca, una zimarra indosso, rossa secondo alcuni e se-
« condo altro nera, con un campanello in mano », egli
percorreva le strade di Napoli emettendo con enfasi il

(1) Vedi pel « monacello » le mie note all’edizione del Basile, I,
35> 293-
(2) Vedi Capasso, La Vicaria vecchia, in Arch. stor. napol., XV
(1890), pp. 628-9.

grido: Provvidenza!.... Buona speranza!.... E così gridando,
gettava lo sguardo esploratore, sulla gente che si affacciava
alle finestre mossa da curiosità all’insolito grido. E girava
assiduamente per ogni parte della città. Un giorno, final-
mente, fu trovato il corpo mutilo di un assassinato, e il
mendicante era sparito. Si disse che colui era un sicario
spedito a compiere una misteriosa vendetta. La persona
da lui ricercata viveva nascosta e travestita; ma, avendo
cacciato il capo fuori della finestra all’udire il grido, era
stata notata dal mendicante, e attirata in un agguato.
Questa leggenda racconta il Dalbono, mettendovi di suo,
come motivo della vendetta, gli amori della figliuola del
re di Svezia con un giovane medico italiano, che era la
vittima ricercata.
Sceverare nel racconto tradizionale il vero dall’imma-
ginario, non è facile. L’esistenza del mendicante dal grido,
che divenne il suo soprannome, Provvidenza e Buona spe-
ranza, è da porsi fuor di dubbio. Anche storica sembra la
coincidenza tra la sparizione di esso e la scoverta di un
assassinio (*). Ma circa la missione che avrebbe compiuta a
Napoli per conto di una corte straniera, e propriamente
di quella di Svezia, è difficile venire in chiaro della verità.
A me parve dapprima che non fosse senza influenza, in
questa mescolanza del nome del re di Svezia nell’avven-
tura del mendicante, l’incidente occorso appunto a Napoli
nel 1794 al barone Gustavo Maurizio d’Armfelt, ambascia-
tore di Svezia. Valoroso generale, favorito di re Gusta-
vo III, quando il re fu mortalmente colpito in una festa di
ballo dalla pistola di Ankarstrom (2), egli era stato desi-
gnato a far parte del consiglio di reggenza. Ma il reggente
Duca di Sòdermanland, che gli era nemico, cercò di sba-
razzarsene coll’inviarlo alla corte di Napoli. Qui l’Armfelt
prese parte a una vasta congiura contro la politica del reg-
gente, cui partecipavano molti dei nobili svedesi e vi pre-
stava aiuto il governo russo. Scoverta la trama, accusato
di alto tradimento, il reggente spedì a Napoli al principio
del febbraio 1794 il Barone di Palmquist con una lettera
pel Re Ferdinando nella quale si chiedeva di permettere
che il Palmquist potesse se saisir dell’Armfelt e di tutte le
sue carte. Il ministro Acton si rifiutò solennemente a soddi-
sfare questa richiesta; ma, contemporaneamente, Francesco
Piranesi, figlio del famoso incisore, agente di Svezia a
Roma, fece partire per Napoli un tal Mori con due com-
pagni, incaricato di sorvegliare — diss’egli — per ammazzare

(1) Parecchi da me interrogati ricordano di aver sentito nella loro
fanciullezza queste notizie da persone che avevano visto il mendicante.
(2) Nel 1792 a un tale che portava in giro statue di cera, fu proi-
bito di esporre in Napoli quelle « del Re di Svezia e del mostro di
Ankarstrom suo uccisore » (Croce, Teatri di Napoli, p. 618). Ma
nello stesso tempo i giacobini napoletani celebravano l’Ankarstrom
come il Bruto del nord!
 
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