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Napoli nobilissima — 5.1896

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Croce, Benedetto: Leggende di Luoghi ed edifizii di Napoli
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https://doi.org/10.11588/diglit.69898#0191

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RIVISTA DI TOPOGRAFIA ED ARTE NAPOLETANA

D5

•— sostenne l’Acton in una sua nota diplomatica — il
barone d’Armfelt. Il quale, sfuggendo alla sorveglianza o
al tentativo di assassinio, non senza aiuto, sembra, del
governo napoletano, si rifugiò in Russia; ed ebbe di poi
ancora gran parte nella storia del suo paese e della Rus-
sia (J). Il Tiranesi, accusato come organizzatore di assassi-
ni! innanzi all’Europa, si fece difendere da Vincenzo Monti
che scrisse in nome di lui una lunga Lettera al Generale
D. Giovanni Acton in data di Roma 24 dicembre 1794 (1 2 3).
La connessione tra l’avventura del mendicante Provvi-
denza e Buona Speranza e l’aneddoto dell’Armfelt sarebbe
provata se potesse darsi fede al Dalbono, il quale scrive:
« Dicesi, nè posso tacerlo, che dell’orrendo assassinio a
« lungo e in più modi si parlasse, che l’offesa dignità go-
« vernativa mosse querele e rimproveri ai promotori di
« tanta scandalosa iniquità, e che se n’ ebbero risposte
« audaci e pungenti, e si ripetono queste parole, scritte a
« conclusione di un foglio: Così risponde il nipote del gran
« Gustavo ad un tributario della Santa Sede ».
Ora appunto nella lettera del Monti a nome del Pira-
nesi, a proposito della protesta dell’Acton, mandata senza
accompagnamento di lettera, si legge: « Doveva Ella (S.
M. Svedese) « figurarsi che il successore di Carlo XII, il
« figlio di Gustavo III, non fosse degno di ricevere una
« risposta dal tributario della Santa Sede? ».
Ma il Dalbono potè conoscere la lettera del Monti o
averne notizia indiretta, e fare di suo arbitrio questa ag-
giunta alla tradizione.
A ogni modo, non è impossibile e neanche improba-
bile, che la reminiscenza del tentato assassinio dell’Armfelt
ordinato dalla corte di Svezia, fosse dalla tradizione ado-
perata come motivazione di un assassinio realmente com-
piuto e messa in relazione con la figura del misterioso
mendicante. Qualcuno mi assicura che anche prima della
pubblicazione della leggenda del Dalbono, si diceva che il
mendicante Provvidenza era un emissario del re di Svezia.
V.
Nella conclusione della sua opera il Dalbono menziona
alcune altre tradizioni delle quali egli avrebbe voluto trat-
tare, come la Lata della Majella, i Fratelli pii di Catania,
la Lava dei Vergini, il Diavolo di Manfredi (?), il Principe
di Sansevero-, e poi dei palazzi che conservano tesori, come
il Palazzo Mirabella (3); e poi della iettatura; e poi dell’o¬

(1) Il Barone d’Armfelt ha scritto anche una sua autobiografia,
che non mi è riuscito di vedere.
(2) È ristampata in Opere inedite o rare di Vincenzo Monti, 3.“
ediz. napol., Napoli, 1851. — Sulla contesa tra le corti di Napoli e
di Svezia cfr. anche Arrighi, Saggio storico, Napoli, 1813, III, 54-60.
(3) « I vecchi abitanti del Pendino.. . asseriscono che in quel
« palazzo annerito dal tempo e dal fumo, siavi nascosto un tesoro.

rigine di detti proverbiali, come correre pe Bicenzone, ri-
cordarsi il pioppo a Forcella, fare il giorgio cotogno, ecc.; e
poi ancora di costumi, come delle processioni popolari (’),
dei Sangiovannesi ossia dei facchini di S. Giovanni a Te-
duccio; e così via. « Questo buon popolo napoletano
« — egli scrive — ha una storia non solo, ma una poe-
« sia vera e parlante, la poesia delle credenze misteriose
« e de’ racconti tradizionali. Prova ne siano le antiche
« strade chiamate in gran parte con poetici nomi, dettati
« forse da superstiziose credenze: il vicolo delle Fate alla
« Marinella, il vicolo del Settimo cielo a S. Agnello, il vi-
« colo del Sospiro al Mercato, il vicolo Belli-fiori e Belle
« donne, il vicolo Carogioiello, ed altri moltissimi ».
Il Dalbono è autore anche di un volume intitolato:
Vizii e virtù d’illustri famiglie (2), scritto collo stesso me-
todo delle Tradizioni popolari, e nel quale alla storia e alle
invenzioni romanzesche si mescolano, alterate e impastic-
ciate in modo incredibile, alcune leggende. Mi basti ac-
cennare che nel lungo capitolo su Lucrezia d’Alagno ap-
pare, del tutto sfigurata, la leggenda del Pesce Cola-, vi si
parla di una schiava saracina strumento di Lucrezia per
non so quali avvelenamenti, e ad essa si applicano i no-
tissimi versi della fiaba: Cuoco cuoco della mala cucina Che
fa il re con la schiava saracina?-, e a questa schiava si as-
segna una casa in via dei Lanzieri, che le sarebbe stata
donata da Lucrezia, casa « portante ancora ad insegna il
« marmoreo capo della schiava »; e si cita un brano di
una cronaca, che nessuno ha mai visto, dove si legge:
« a lo die ventisette de lo stisso mese fuje arza la casa
« dieta la schiava senza salvamento di presuna et de robba.
« Lo fuoco era de nfierno, et non si potio salvare la pa-
« trona... ». Questo come saggio del suo modo di fog-
giare le antiche cronache.
E qui faccio punto, parendomi di avere indicato quel
tanto di non inutili notizie che possono ancora cavarsi
dall’opera del Dalbono, e di aver messo i lettori in guar-
dia innanzi a tutto il resto.
fine.
Benedetto Croce.

« E lo dicono il tesoro di Miroballo, e dimostrano una testa scolpita
« creduta il suo ritratto. Questo marmoreo capo è fabbricato sopra
« un muro della piccola corte ove si osserva una porta dalla quale
« vogliono che si scenda in una cantina e in quella siavi uno schiavo
« a cavallo cioè un Moro e sollevata una pietra si trovi il tesoro. E
« questo tesoro è sempre là, nessuno lo ha toccato, e guai a chi
« osasse discendervi per rapirlo, guai, perchè lo schiavo farebbe non
« so che cosa diabolica... ».
(1) Tra l’altre, le processioni presso S. Eufemia in Calabria, nelle
quali « un giovane forte è costretto a reggere un gran tronco di croce
« di smoderato peso, dal quale resta talvolta fiacco e guasto per tutta
« la vita. Eppure se un giovane non ha portato questo enorme tronco
« non può aspirare alla mano di qualsiasi donzella ».
(2) 2.a ediz. illustrata a penna da E. Dalbono figlio, Nàpoli, 1874.
 
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