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Ojetti, Ugo [Hrsg.]; Palazzo Pitti [Mitarb.]
La pittura italiana del Seicento e del Settecento alla mostra di Palazzo Pitti — Milano [u.a.]: Bestetti e Tumminelli, 1924

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e potenti: su su, fino a Rembrandt. Ma dove finiva il Seicento? Il Settecento si forma nel Seicento, è il
fiore di quel tronco robusto, di quei cento rami, qua tenebrosi, là accesi da lampi di luce e da fiammate
di sole. Da Napoli a Venezia, tra questi due secoli non trovavamo soluzione di continuità. A Napoli vedevamo
nel malinconico intimo femineo Bernardo Cavallino morto a trentadue anni nel 1654, nella grazia musicale
dei suoi racconti in sordina, nella carezza della sua pennellata lieve come una piuma, nel languore dei suoi
azzurri che si sfanno in grigi di perla, dei suoi bruni infocati che si spengono nel pallore dei lunghi volti
pensosi, il germe, le maniere, le grazie di tutto il Settecento napoletano, pur tanto meno fine e tanto
meno sincero di lui, fino al Bonito, al Diana, al De Mura. Così nel Veneto, dal Lys, dal Feti, dallo
Strozzi, dal fino a ieri ignorato Maffei, vedevamo sorgere tutta l'alata iridata pittura che si chiama Tiepolo
o Guardi. In breve, fino al Neoclassicismo, fino a Pompeo Baioni romano di Lucca, meglio fino all'Appiani,
non trovavamo dove fermarci. Così un bel giorno ci facemmo cuore e la Mostra del Seicento diventò la
« Mostra del Seicento e del Settecento ».
E un altro fatto è da ricordare: che con questa mostra d'arte retrospettiva, la maggiore fatta finora
in Europa, noi s'obbediva all'invito fatto dal Re quando nell'ottobre del 1919 restituì al Demanio questi
suoi palazzi: « doversi degnamente raccogliere in essi i tesori delle arti nostre ».
La nuova Pinacoteca con milletrecento quadri di trecento artisti, che in pochi mesi, e purtroppo per pochi
mesi, noi raccogliemmo da ogni parte d'Italia e d'Europa e ordinammo in continuazione della gloriosa Galleria
Palatina, si giovò infatti delle belle sale parate di rasi e di damaschi lasciando intatto anzi accrescendo il
loro fasto regale. Basta ripensare alla sala del Trono con le quattro tele imponenti, il « Sant'Alò » del
Cavedone, il « San Guglielmo d'Aquitania » del Guercino, la « Deposizione » del Tiarini venuti da Bologna,
la « Morte della Vergine » di Guido Reni venuta da Siena; al salone delle Nicchie con dieciotto Caravaggio,
mandati da Roma, da Parigi, da Berlino; ai tre salotti settecenteschi della Regina Margherita, tutti a stucchi,
specchi, sete e ricami, che adornammo con quaranta Guardi, venti Longhi, e Rosalba e Canaletto e Bellotto
e Battaglioli e Zais e Zuccarelli e Diziani.
In tanto degna sede questa Mostra, giunta, per gli studiosi, al momento opportuno e, per l'Italia, nei
mesi in cui dalla torbida stanchezza dopo la guerra essa riprendeva coscienza della sua vittoria, della sua
missione e delle sue glorie, non ebbe, anche fuori d'Italia, che consensi ed elogi. Non sono da trascrivere qui.
Chi sa, li conosce. Chi non sa, non conta. Dobbiamo piuttosto vedere quali sieno i frutti che da questa
Mostra ha tratti o viene traendo la storia e la critica dell'arte. Diffusamente li illustra, nello studio che
segue, Luigi Dami per quanto riguarda la critica; per quanto riguarda date e fatti, Nello Tarchiani li rias-
sume nelle biografie degli artisti, perchè basterebbe confrontare a queste biografie e attribuzioni quelle stampate
nella prima edizione del catalogo della Mostra per misurare i primi e più tangibili effetti dell'opera nostra.
Pittori e grandi pittori come il Serodine, il Feti, lo Strozzi, il Lys, il Mola, il Ceruti, il Maffei, Se-
bastiano Ricci, l'Jlmigoni, il Todeschini, il Rotari, il Bazzani, si può dire che sieno stati per la prima volta
adesso rivelati. E anche pittori già noti e pregiati, come Orazio Gentileschi, Massimo Stanzioni, Alessandro
Magnasco, Giuseppe Maria Crespi, Giovan Paolo Pannini, Giovan Battista Piazzetta, sono stati soltanto in
Palazzo Pitti studiati e compresi a dovere, pel gran numero di opere che di proposito obbiamo voluto rac-
cogliere di ciascuno di loro da tutta l'Europa. Dirò di più: pittori già celebrati, come Michelangelo da
Caravaggio, Mattia Preti, Bernardo Cavallino, Francesco Guardi, sono apparsi in una luce nuova, ed escono
da questa Mostra tra un vasto consenso d'ammirazione, che le loro opere separate, una in una chiesa, una
in un museo, una in una raccolta privata, non avevano ancóra ottenuto. E mentre noi vedevamo questi
dipinti, uno da Parigi, uno da Roma, uno da Londra, uno da Venezia, ecco, ritrovarsi nella stessa sala
e nella stessa luce, figli d'uno stesso padre che dopo uno, due, tre secoli tornavano sotto uno stesso tetto,
faccette d'un solo diamante, tratti d'un solo volto, sogni della stessa fantasia, pensieri della stessa mente,
delicatezze dello stesso occhio, pennellate della stessa mano, ci pareva talvolta che al nostro lavoro presie-
desse qualcosa di più vivo anche del nostro amore all'arte, della nostra devozione a Firenze: lo spirito stesso
 
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