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dell'artista, la sua presenza ideale come quella d'un dio sull'altare che, pietra a pietra, noi gli rico-
struivamo; e un poco anche la riconoscenza di lui, tanto lontano e tanto vicino, pel fervore della nostra pietà
e della nostra fede. E nessuna lode ci è poi stata così dolce quanto quei fuggevoli colloqui con le ombre.
Ad essere brevi, ci sembra che le conclusioni della critica dopo la Mostra fiorentina possano ridursi
a sei. La prima è d'ordine generale: ed è ormai la riconosciuta esistenza d'una grande pittura italiana degna
di studio, di fama, spesso di gloria anche in questi due secoli finora lasciati in oblio. Alla fine del Cin-
quecento, l'ombra era caduta più repentina e più densa proprio su Venezia e su Firenze, cioè sui due più
luminosi focolari della civiltà artistica nel secolo d'oro; e la pittura fuori di lì sembrava secondaria e quasi
provinciale. Peggio, dal Seicento in poi, la Fiandra, la Spagna, la Francia, l'Inghilterra videro sorgere scuole
proprie le quali dovettero, è vero, molto all'Italia, e quella francese a Roma, e quella spagnola e fiam-
minga a Venezia, ma riuscirono anche ad opere originali e superbe e per sempre gloriose le quali presto
offuscarono oltralpe la fama delle contemporanee scuole e pittori d'Italia, anche la fama d un Caravaggio,
d'un Preti, d'un Cavallino, d'un Crespi, d'un Piazzetta, d'un Guardi. La nostra stessa servitù politica di
quei due secoli sembrò gittare un tedio di miseria e d'obbedienza sull'arte nostra. Adesso non più. Dalla
Reggia di Pitti, la pittura italiana del Seicento e del Settecento è rientrata nella storia della pittura europea,
maestosamente. E sarà impossibile cacciarla nell'oblio un'altra volta.
La seconda conclusione si è che mentre, ad esempio, i più grandi pittori francesi, da Vouet a Pous-
sin, vengono a cercare qui
L'union de la gràce et des proportions
e l'unità e la disciplina della «grande arte», e il movimento francese verso Roma si conclude nello stesso
secolo con Lebrun e con l'Jlccademia, con un'arte sola sotto una sola volontà, in Italia invece, passato alla
fine del Cinquecento il breve periodo più strettamente austero e sobrio e nudo della Controriforma e del-
l'Ecclesìa militans dopo il Concilio di Trento, il movimento si fa tutto centrifugo, non solo a Roma con
I Ecclesia triumphans ma anche a Scapoli, a Bologna, a Milano, a Genova, a Venezia. Si tratta quasi d'una
liberazione tumultuosa dopo la compressione dell'Accademia michelangiolesca o meglio vasariana, e dell'Ac-
cademia carraccesca. Resta la tradizione, resta l'adorazione pei grandi modelli; ma ognuno li adora a modo
suo, secondo il proprio temperamento e la propria passione esultante ed esuberante. Il Barocco insomma,
in pittura come in architettura, non è la decadenza, non è la contraddizione al Rinascimento: è la sua
logica conclusione. Meglio, è un ritorno, come nel primo Rinascimento, alle scuole provinciali, alle varietà
regionali, a quell'incancellabili e liberi e singolari caratteri della vita ideale d'ogni nostra città che in tutte
le epoche di resurrezione e di vigore formano i cento petali del fior dell'arte nostra. E la constatazione di
questo risorto regionalismo sarebbe la terza tesi che adesso si può dedurre dalla Mostra di Pitti.
La quarta si è il riconoscimento della sincerità del nostro Seicento. Dodici o quindici anni fa, quando
si ricominciò a guardare il Seicento, lo si guardò da fuori, con occhi stupefatti, come uno spettacolo tea-
trale, come se tutta quella gente viva mossa abbondante lassù si divertisse a far finta d'essere barocca. Anche
questa fisima di giudici frettolosi che si fermavano all'aneddoto, alla bizzarria, all'epigramma, alla spagno-
lata, è, se Dio vuole, passata. La necessità spirituale di quest'arte è ormai stata riconosciuta davanti a
queste opere magnifiche, liete o dolorose, urlanti o sommesse, tutte rivelatrici d'anime energiche e profonde
e credenti che, confessandosi in un quadro, più che mettersi una maschera se la strappavano. Per dir solo
delle pitture religiose, dal Caravaggio nella « Vocazione di San Matteo » o nel « Transito della Vergine »,
al Crespi nella «Strage degli Innocenti»; dal Preti nella «Peste» e nel «Crocifisso», al Cavallino nel
« San Pietro liberato »; dal Guercino nel « San Guglielmo d'Aquitania » al Piazzetta nell' « Estasi di San
Francesco »; da Daniele Crespi nella « Cena di San Carlo Borromeo » a Francesco del Cairo nel « Cristo
a Getsemani», questi due secoli hanno lanciato gridi di fede tanto stupendi e tremendi che anche oggi
dònno fuoco all'anima.
dell'artista, la sua presenza ideale come quella d'un dio sull'altare che, pietra a pietra, noi gli rico-
struivamo; e un poco anche la riconoscenza di lui, tanto lontano e tanto vicino, pel fervore della nostra pietà
e della nostra fede. E nessuna lode ci è poi stata così dolce quanto quei fuggevoli colloqui con le ombre.
Ad essere brevi, ci sembra che le conclusioni della critica dopo la Mostra fiorentina possano ridursi
a sei. La prima è d'ordine generale: ed è ormai la riconosciuta esistenza d'una grande pittura italiana degna
di studio, di fama, spesso di gloria anche in questi due secoli finora lasciati in oblio. Alla fine del Cin-
quecento, l'ombra era caduta più repentina e più densa proprio su Venezia e su Firenze, cioè sui due più
luminosi focolari della civiltà artistica nel secolo d'oro; e la pittura fuori di lì sembrava secondaria e quasi
provinciale. Peggio, dal Seicento in poi, la Fiandra, la Spagna, la Francia, l'Inghilterra videro sorgere scuole
proprie le quali dovettero, è vero, molto all'Italia, e quella francese a Roma, e quella spagnola e fiam-
minga a Venezia, ma riuscirono anche ad opere originali e superbe e per sempre gloriose le quali presto
offuscarono oltralpe la fama delle contemporanee scuole e pittori d'Italia, anche la fama d un Caravaggio,
d'un Preti, d'un Cavallino, d'un Crespi, d'un Piazzetta, d'un Guardi. La nostra stessa servitù politica di
quei due secoli sembrò gittare un tedio di miseria e d'obbedienza sull'arte nostra. Adesso non più. Dalla
Reggia di Pitti, la pittura italiana del Seicento e del Settecento è rientrata nella storia della pittura europea,
maestosamente. E sarà impossibile cacciarla nell'oblio un'altra volta.
La seconda conclusione si è che mentre, ad esempio, i più grandi pittori francesi, da Vouet a Pous-
sin, vengono a cercare qui
L'union de la gràce et des proportions
e l'unità e la disciplina della «grande arte», e il movimento francese verso Roma si conclude nello stesso
secolo con Lebrun e con l'Jlccademia, con un'arte sola sotto una sola volontà, in Italia invece, passato alla
fine del Cinquecento il breve periodo più strettamente austero e sobrio e nudo della Controriforma e del-
l'Ecclesìa militans dopo il Concilio di Trento, il movimento si fa tutto centrifugo, non solo a Roma con
I Ecclesia triumphans ma anche a Scapoli, a Bologna, a Milano, a Genova, a Venezia. Si tratta quasi d'una
liberazione tumultuosa dopo la compressione dell'Accademia michelangiolesca o meglio vasariana, e dell'Ac-
cademia carraccesca. Resta la tradizione, resta l'adorazione pei grandi modelli; ma ognuno li adora a modo
suo, secondo il proprio temperamento e la propria passione esultante ed esuberante. Il Barocco insomma,
in pittura come in architettura, non è la decadenza, non è la contraddizione al Rinascimento: è la sua
logica conclusione. Meglio, è un ritorno, come nel primo Rinascimento, alle scuole provinciali, alle varietà
regionali, a quell'incancellabili e liberi e singolari caratteri della vita ideale d'ogni nostra città che in tutte
le epoche di resurrezione e di vigore formano i cento petali del fior dell'arte nostra. E la constatazione di
questo risorto regionalismo sarebbe la terza tesi che adesso si può dedurre dalla Mostra di Pitti.
La quarta si è il riconoscimento della sincerità del nostro Seicento. Dodici o quindici anni fa, quando
si ricominciò a guardare il Seicento, lo si guardò da fuori, con occhi stupefatti, come uno spettacolo tea-
trale, come se tutta quella gente viva mossa abbondante lassù si divertisse a far finta d'essere barocca. Anche
questa fisima di giudici frettolosi che si fermavano all'aneddoto, alla bizzarria, all'epigramma, alla spagno-
lata, è, se Dio vuole, passata. La necessità spirituale di quest'arte è ormai stata riconosciuta davanti a
queste opere magnifiche, liete o dolorose, urlanti o sommesse, tutte rivelatrici d'anime energiche e profonde
e credenti che, confessandosi in un quadro, più che mettersi una maschera se la strappavano. Per dir solo
delle pitture religiose, dal Caravaggio nella « Vocazione di San Matteo » o nel « Transito della Vergine »,
al Crespi nella «Strage degli Innocenti»; dal Preti nella «Peste» e nel «Crocifisso», al Cavallino nel
« San Pietro liberato »; dal Guercino nel « San Guglielmo d'Aquitania » al Piazzetta nell' « Estasi di San
Francesco »; da Daniele Crespi nella « Cena di San Carlo Borromeo » a Francesco del Cairo nel « Cristo
a Getsemani», questi due secoli hanno lanciato gridi di fede tanto stupendi e tremendi che anche oggi
dònno fuoco all'anima.