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Dal Ricci invece muove G. B. Pittoni, nè mi sembra necessario ricercare nel Tiepolo la sua fonte,
tanto più che egli era di qualche anno più vecchio. Si ritrovano in lui quei motivi ricceschi che il Ricci
stesso porta tanto innanzi, negli ultimi tempi, da esser già quasi tiepoleschi in sua mano: questa forse è la
verità. In ogni modo il Pittoni è uno di quelli che più ama e persegue la frattura agile del suo secolo; che
in lui spesso è, veramente, casuale e senza musica profonda, ma spesso si salva per la grazia innata delle
spezzature, dei moti, delle frastaglie, e quasi sempre per il colore, che è nelle cose migliori gemmato. E le migliori
son le piccole e raccolte: egli nello spazio breve trova meglio un ritmo segreto, non appariscente ma vigile,
per le sue composizioni irrequiete. Accanto, l'Amigoni più lisciato, più arcadico e dolcetto, prolunga qualche
eco di canzonetta napoletana del Giordano, in una chiara pittura di mitologia agreste: tanto se dica le storie
sacre che le profane. Ma piace forse di più in qualche ritratto agghindato e di festosa accademia.
4. - Su tutti questi e gli altri che diremo s' alza e domina il Tiepolo. Egli è la suprema conclusione
anticlassica di questi due secoli di pittura. I primi moti reattivi s'ebbero nel cinquecento, serpeggiarono frementi
nel seicento, e ora travolgono ogni resistenza. All'inizio dei due secoli noi trovammo il Caravaggio ultimo clas-
sico del Rinascimento: ora al termine incontriamo il Tiepolo che di quello è l'antipodo. Il destino è compiuto.
La materia pittorica e le forme essenziali che gli serviranno sono già sistemate e pronte quando
egli appare. In gran parte non sono opera sua. Tutte le realizzazioni precedenti, anche quelle che più
ci han fatto ammirare, messe a confronto, sembrano non aver più altro valore che di antecedenti. Del
resto come tutti i grandissimi egli ha bisogno di poco e costruisce con poco: la loro ricchezza non è nella
materia ma nello spirito. E la sua grandezza non è nelle immaginazioni attuate ma nella fantasia che le costi-
tuisce e le compone. Era giunto a lui, traverso le trasformazioni che abbiamo sia pure alla lesta notate, il
brio della grafica di Pietro da Cortona, che egli riprende nell'ultima incarnazione riccesca; il Piazzetta gli
offriva una autentica interpretazione veneziana del chiaroscuro di Caravaggio, ed è l'amore dei suoi primi
momenti; dal Feti in poi tutti i veneti più o meno han cantato una strofe dell'inno coloristico di pennellata;
per mille vie dal Cortona, dal Lys, dal Crespi, dal Piazzetta, dal Ricci, gli giunge un incitamento alla libertà
dei cieli, ove l'umanità sia assunta, svincolata dai ceppi terrestri.
Ed egli veramente prende l'umanità e la porta sull' ippogrifo di Astolfo. Come dovette apparire ai
primi lettori incantati il mondo lunatico dove era vaporato il cervello d'Orlando, appaiono a noi le sue tra-
sfigurazioni aeree di un mondo bilicato fuori dal nostro equilibrio di posa. Il cuore gli dovette balzare di
gioia quando gli fu commesso di raffigurare la Santa Casa di Loreto portata nell'aria dagli angeli: il mondo
della sua fantasia ariostesca era in faccia alla riprova storica della propria realtà.
I soggetti veri delle sue pitture non sono le allegorie, le celebrazioni, le narrative di cui i cronisti
ci trasmettono le didascalie, ma sono donne distese sopra giacigli di nubi, architetture sorrette dai venti, cavalli
a galoppo sopra a strade di sole; e il cielo che si precipita verso la terra, la terra presa in un vortice che
sale a incontrarlo. La sua fantasia rifugge dall'unità, è animata da una costante forza centrifuga. Il demone
interno della sua arte è uno spirito di avventura e di scoperta, la sua ultima dea è la Volubilità. Si tratta
per lui ogni momento non di scoprire cose nuove ma di inventare un nuovo aspetto delle vecchie; ed in questo
la sua fantasia non ha limiti al distruggere e al ricreare. Alle cose in se non è dato alcun valore, ma tutto
l'interesse è trasferito al loro modo di manifestarsi. Ogni uomo non è costruito permanentemente della sua
ossatura corporea, ma di volta in volta dal gesto che compie: il suo valore cambia perciò di continuo, a
ogni momento il pittore crea una linea emblematica di quella sostanza transitoria, che è incomunicabile a qualsiasi
altra, e che decade subitamente ove un altro gesto crei nella stessa sostanza un altro uomo. Così è delle bestie,
così per fino degli alberi, che rinunciano alle fronde, delle rocce che disdegnano la piramide. Siamo nel regno
della individualità che per ogni suo istante di vita ha un profilo inventato allora. La classicità, ricordiamolo, tendeva
a un individuale di caratteri così costanti da essere agevole tramutarlo in una rappresentazione del « genere ».
LA CONCLU-
SIONE ANTI-
CLASSICA DEL-
LA PITTURA
ITALIANA: IL
TIEPOLO.
Dal Ricci invece muove G. B. Pittoni, nè mi sembra necessario ricercare nel Tiepolo la sua fonte,
tanto più che egli era di qualche anno più vecchio. Si ritrovano in lui quei motivi ricceschi che il Ricci
stesso porta tanto innanzi, negli ultimi tempi, da esser già quasi tiepoleschi in sua mano: questa forse è la
verità. In ogni modo il Pittoni è uno di quelli che più ama e persegue la frattura agile del suo secolo; che
in lui spesso è, veramente, casuale e senza musica profonda, ma spesso si salva per la grazia innata delle
spezzature, dei moti, delle frastaglie, e quasi sempre per il colore, che è nelle cose migliori gemmato. E le migliori
son le piccole e raccolte: egli nello spazio breve trova meglio un ritmo segreto, non appariscente ma vigile,
per le sue composizioni irrequiete. Accanto, l'Amigoni più lisciato, più arcadico e dolcetto, prolunga qualche
eco di canzonetta napoletana del Giordano, in una chiara pittura di mitologia agreste: tanto se dica le storie
sacre che le profane. Ma piace forse di più in qualche ritratto agghindato e di festosa accademia.
4. - Su tutti questi e gli altri che diremo s' alza e domina il Tiepolo. Egli è la suprema conclusione
anticlassica di questi due secoli di pittura. I primi moti reattivi s'ebbero nel cinquecento, serpeggiarono frementi
nel seicento, e ora travolgono ogni resistenza. All'inizio dei due secoli noi trovammo il Caravaggio ultimo clas-
sico del Rinascimento: ora al termine incontriamo il Tiepolo che di quello è l'antipodo. Il destino è compiuto.
La materia pittorica e le forme essenziali che gli serviranno sono già sistemate e pronte quando
egli appare. In gran parte non sono opera sua. Tutte le realizzazioni precedenti, anche quelle che più
ci han fatto ammirare, messe a confronto, sembrano non aver più altro valore che di antecedenti. Del
resto come tutti i grandissimi egli ha bisogno di poco e costruisce con poco: la loro ricchezza non è nella
materia ma nello spirito. E la sua grandezza non è nelle immaginazioni attuate ma nella fantasia che le costi-
tuisce e le compone. Era giunto a lui, traverso le trasformazioni che abbiamo sia pure alla lesta notate, il
brio della grafica di Pietro da Cortona, che egli riprende nell'ultima incarnazione riccesca; il Piazzetta gli
offriva una autentica interpretazione veneziana del chiaroscuro di Caravaggio, ed è l'amore dei suoi primi
momenti; dal Feti in poi tutti i veneti più o meno han cantato una strofe dell'inno coloristico di pennellata;
per mille vie dal Cortona, dal Lys, dal Crespi, dal Piazzetta, dal Ricci, gli giunge un incitamento alla libertà
dei cieli, ove l'umanità sia assunta, svincolata dai ceppi terrestri.
Ed egli veramente prende l'umanità e la porta sull' ippogrifo di Astolfo. Come dovette apparire ai
primi lettori incantati il mondo lunatico dove era vaporato il cervello d'Orlando, appaiono a noi le sue tra-
sfigurazioni aeree di un mondo bilicato fuori dal nostro equilibrio di posa. Il cuore gli dovette balzare di
gioia quando gli fu commesso di raffigurare la Santa Casa di Loreto portata nell'aria dagli angeli: il mondo
della sua fantasia ariostesca era in faccia alla riprova storica della propria realtà.
I soggetti veri delle sue pitture non sono le allegorie, le celebrazioni, le narrative di cui i cronisti
ci trasmettono le didascalie, ma sono donne distese sopra giacigli di nubi, architetture sorrette dai venti, cavalli
a galoppo sopra a strade di sole; e il cielo che si precipita verso la terra, la terra presa in un vortice che
sale a incontrarlo. La sua fantasia rifugge dall'unità, è animata da una costante forza centrifuga. Il demone
interno della sua arte è uno spirito di avventura e di scoperta, la sua ultima dea è la Volubilità. Si tratta
per lui ogni momento non di scoprire cose nuove ma di inventare un nuovo aspetto delle vecchie; ed in questo
la sua fantasia non ha limiti al distruggere e al ricreare. Alle cose in se non è dato alcun valore, ma tutto
l'interesse è trasferito al loro modo di manifestarsi. Ogni uomo non è costruito permanentemente della sua
ossatura corporea, ma di volta in volta dal gesto che compie: il suo valore cambia perciò di continuo, a
ogni momento il pittore crea una linea emblematica di quella sostanza transitoria, che è incomunicabile a qualsiasi
altra, e che decade subitamente ove un altro gesto crei nella stessa sostanza un altro uomo. Così è delle bestie,
così per fino degli alberi, che rinunciano alle fronde, delle rocce che disdegnano la piramide. Siamo nel regno
della individualità che per ogni suo istante di vita ha un profilo inventato allora. La classicità, ricordiamolo, tendeva
a un individuale di caratteri così costanti da essere agevole tramutarlo in una rappresentazione del « genere ».
LA CONCLU-
SIONE ANTI-
CLASSICA DEL-
LA PITTURA
ITALIANA: IL
TIEPOLO.