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Tasso, Torquato
La Gerusalemme liberata — Venedig, 1745

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https://doi.org/10.11588/diglit.5052#0132
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C t/s N T 0

LXXIV.
Qui tacque j e parve eh' un regale sdegno
E generoso V accendesse in vista :
E '1 pie volgendo, di partir fea segno ,
Tutta negli atti dispettosa e trista.
Il pianto si spargea senza ritegno,
Coni' ira suol produrlo a dolor mista :
E le naseenti lagrime a vederle
Erano a' rai del Sol cristalli e perle.
LXXV.
Le guancie asperse di que' vivi umori,
Che giù cadean fin della vette al lembo ,
Parean vermigli insieme , e bianchi fiori j
Se pur gì'irriga un rugiadoso nembo,
Quando su l'apparir de' primi albori
Spiegano all' aure liete il chiuso grembo :
E l'alba che gli mira, e se n' appaga,
D'adornarsene il crin diventa vaga.
LXXVI.
Ma il chiaro umor, che di sì spesse sìille
Le belle gote e '1 seno adorno rende,
Opra esfetto di foco, il qual in mille
Petti serpe celato, e vi s'apprende.
O miracol d'Amor, che le faville
Tragge del pianto, e i cor nell'acqua accende!
Sempre sovra natura egli ha polsanza j
Ma in virtù di cortei se steiso avanza.
LXXVII.
Queslo finto dolor da molti elice
Lagrime vere, e i cor più duri spetra.
Ciascun con lei s'asssigge, e fra se dice:
Se mercè da Gosfredo or non impetra,
Ben fu rabbiosa tigre a lui nutrice,
E'1 produsfe in aspr'alpe orrida pietra,
O Tonda che nel mar si frange e spuma :
Crudel, che tal beltà turba e consuma.
 
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