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Tasso, Torquato
La Gerusalemme liberata — Venedig, 1745

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https://doi.org/10.11588/diglit.5052#0131
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Q_ U a R T 0.
LXX.
A quel parlar chinò la donna, e risse
Le luci a terra, e (tette immota alquanto:
Poi sollevolle rugiadose, e disse,
Accompagnando i ssebil' atti al pianto :
Misera, ed a qual' altra il Ciel prescrisse
Vita mai grave, ed immutabil tanto \
Che lì cangia in altrui mente e natura,
Pria che li cangi in me sorte sì dura ?
LXXI.
Nulla speme più resta : invan mi doglio :
Non han più forza in uman petto i preghi
Forsè lece sperar che '1 mio cordoglio,
Che te non mosse, il reo Tiranno pieghi?
Ne già te d'inclemenza accusar voglio 3
Perchè 1 picciol soccorso a me 11 neghi ;
Ma il Cielo accuso , onde il mio mal discende
Che in te pietate inesorabil rende.
LXXII.
Non tu, Signor, ne tua bontade è tale -,
Ma '1 mio destino è, che mi nega aita :
Crudo destino, empio destin fatale,
Uccidi ornai questa odiosa vita.
L'avermi priva, oimè, fu picciol male
De' dolci padri in loro età fiorita ;
Se non mi vedi ancor del regno priva,
Qual vittima al coltello andar cattiva.
LXXIII.
Che poiché legge d'onestate, e zelo
Non vuol che qui sì lungamente indugi,
A cui ricorro intanto ? ove mi celo ?
O quai contra il Tiranno avrò rifugi ?
Nessun loco sì chiuso è sotto il cielo,
Ch'a lor non s'apra: or perchè tanti indugi:
Veggio la morte , e se '1 fuggirla è vano,
Incontro a lei n'andrò con questa mano,
( 4^ )
 
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