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Tasso, Torquato
La Gerusalemme liberata — Venedig, 1745

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https://doi.org/10.11588/diglit.5052#0408
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LXVI.
Ma quando in lui fissò lo sguardo, e vide
Come placido in vista egli respira :
E ne' begli occhi un dolce atto che ride,
Benché sian chiusi, (or che fìa s ci gli gira?)
Pria s' arreda sospesa : e gli s'asside
Poscia vicina, e placar sente ogn* ira,
Mentre il risguarda : e 'n su la vaga fronte
Pende ornai sì che par Narcisò al fonte.
LXVII.
E quei eh' ivi sorgean vivi sudori
Accoglie lievemente in un suo velo :
E con un dolce ventilar gli ardori
Gli va temprando dell'estivo cielo.
Così ( chi '1 crederia ? ) sopiti ardori
D'occhi naseosi dislemprar quel gelo,
Che s'indurava al cor più che diamante :
E di nemica ella divenne amante.
LXVIII.
Di liguslri, di gigli, e delle rose,
Le quai fiorian per quelle piaggie amene,
Con nov' arte congiunte indi compose
Lente, ma tenacisslme catene.
Quelle al collo, alle braccia, ai piè gli pose:
Così l'avvinse, e così preso il tiene :
Quinci mentre egli dorme, il fa riporre
Sovra un suo carro, e ratta il ciel traseorre.
lxix.
Né già ritorna di Damasco al regno :
Né dove ha il suo cartello in mezzo all'onde,
Ma ingelosita di sì caro pegno,
E vergognosa del suo amor, s'aseonde
Neil' Oceano immenso, ove alcun legno
Rado o non mai va dalle nostre sponde,
Fuor tutti i nostri lidi : e quivi eletta
Per solinga sua danza è un' isoletta.
 
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