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IL DISFACIMEN-
TO DELLA PIT-
TURA VENE-
ZIANA: G.A.
GUARDI E IL
BAZZA NI.
6. - Sulla via del disfare si misero quel pittore a cui, per il momento, si dà il nome di Giovanni An-
tonio Guardi, e il mantovano Bazzani. Giovanni Antonio mette insieme da prima i suoi quadri con gli avanzi
di bottega del Pittoni. Ma si sente subito che c'è in lui, sotto sotto, un istinto, più che una volontà, per-
sonale, che è di impiegare il moto e il brio pittonesco non a dominare e atteggiare la materia, ma a pe-
netrarla e sconvolgerla e disgregarla: magari in un sorriso. Questo anche nelle sue cose più pesanti e più
goffe, dove ammollisce tanto la materia pittorica che essa non tiene più la forma, ed i limiti di contorno
sbavano. Poi tende sempre più a render leggeri incerti e volatili i suoi segni. Sfuma i margini perchè suo
intento è di derimere l'opposizione tra le forme e l'ambiente, e vuol trovare senza scosse il trapasso dai
corpi all'atmosfera. E infine la sua pittura, immagini e sostanze, evapora; in certi casi le sue figure non sono
più che addensamenti di vapori colorati. Si ridusse a creare il suo mondo di sogno con il colore scorporato
e l'atmosfera lagunare. Non c'è più nulla che tenga insieme e colleghi quella pittura ondeggiata ne' cieli, se
non il suo capriccio di esistere. Ma basterà un colpo di vento perchè essa dilegui a filacce iridate nel sereno.
Il Bazzani aveva a Mantova dinanzi a sè esempi di animoso impeto ne' saggi di Rubens, e di den-
sità coloristica in quelli del Feti; non gli furono probabilmente sconosciute neanche le belle miscele che Fran-
cesco Maffei adoperava con tanta libertà. Fuse le paste fetiane in un massello grasso, liquescente : e volle
manipolarle alla maniera di Rubens, con gran colpi di bravura. Adopera la materia avanti che sia rafferma,
ancora mobile e calda; il suo sembra un mondo che si stia formando nelle sostanze disciolte del caos, un
istante prima che il rassodamento delle forme sia avvenuto; e vi è ancora percepibile la unicità della materia
di cui tutto si crea. Un fumo sta per addensarsi in un velo, e una carnosità può squagliarsi, da un mo-
mento all'altro, in un fumo addensato.
Solo le masse late e spesse si percepiscono realizzate, le piccole e le minute si presentono in un bri-
vido e in una ondulazione della materia, che non è ancora la cosa formata ma solo la volontà che essa ha
di giungere all'esistenza. Un sorriso non è che una diffusione di luce su un volto, non ancora rappresa nel
disegno delle labbra e nell'accensione dello sguardo. Siamo davanti a una pittura in via di elaborazione che
tende con energia alla forma, alla concrezione, al colore individuato, alla separazione della luce dalle tenebre,
ma non le ha ancora raggiunte. E non le raggiungerà. Il suo grado di vita è questo. Costruendosi ancora
più perderebbe ogni incanto: che non è piccolo e ci piglia con tanta malfa.
GLI ARCADI
E I CICISBEI.
7. - E il discorso sarebbe finito se non ci restasse da ricordare alcuni squisiti cronisti della vita veneziana.
Uno è quell' Ignoto, quasi un grande, autore del « Parlatorio », e del « Ridotto »; che non è Guardi
perchè di lui meno mobile sebbene costruisca le sue figure con altrettanta spigliatezza di falde cromatiche;
che non è Longhi, ma molto sopra di lui per interesse puro di pittura.
Un'altra è Rosalba Carriera, che compone i suoi pastelli di primule, pratoline, margherite, fiori scempi
di prima primavera; e in cento ritratti tutti egualmente deliziosi e inconsistenti, da lasciarci sopra gli occhi e che
non sanno di nulla, narra l'eterno femminino lagunare a tempo delle ciprie scosse sulle chiome dalle ali d'Amore.
E c'è poi Pietro Longhi, uno dei pochi pittori di fama che esce dalla Mostra fiorentina diminuito;
gazzettino pittorico degli usi e costumi, e ciacole e maldicenze nei caffè goldoniani. Egli è troppo liscio e
assettato, e vorremmo nei suoi quadretti più riccioli e trine e falbalà di pittura. Un po' dello spirito, met-
tiamo, che è nelle parabole del Feti. Ma forse infine quei tanti signori, damerini e ballerini, di cui ci racconta
i giorni e le ore erano proprio menciarelli, piatti e scipiti come lui ce li mostra: e il torto è tutto nostro.
A quest'arcadia di città non poteva mancare l'arcadia di campagna: le pastorellerie e le «feste ga-
lanti » trovarono i loro bucolici in Francesco Zuccarelli prima e nel Diziani e nello Zais dopo. Non indegni,
suonando la zampogna in tono minore, di chiudere la discendenza di Marco Ricci e del Marieschi. Il Bat-
taglieli invece si tenne più, con belle immaginazioni, al fare del Canaletto.
E da ultimo il figlio di Pietro, Alessandro Longhi, fu un gran ritrattista, di modi tiepoleschi prima,
IL DISFACIMEN-
TO DELLA PIT-
TURA VENE-
ZIANA: G.A.
GUARDI E IL
BAZZA NI.
6. - Sulla via del disfare si misero quel pittore a cui, per il momento, si dà il nome di Giovanni An-
tonio Guardi, e il mantovano Bazzani. Giovanni Antonio mette insieme da prima i suoi quadri con gli avanzi
di bottega del Pittoni. Ma si sente subito che c'è in lui, sotto sotto, un istinto, più che una volontà, per-
sonale, che è di impiegare il moto e il brio pittonesco non a dominare e atteggiare la materia, ma a pe-
netrarla e sconvolgerla e disgregarla: magari in un sorriso. Questo anche nelle sue cose più pesanti e più
goffe, dove ammollisce tanto la materia pittorica che essa non tiene più la forma, ed i limiti di contorno
sbavano. Poi tende sempre più a render leggeri incerti e volatili i suoi segni. Sfuma i margini perchè suo
intento è di derimere l'opposizione tra le forme e l'ambiente, e vuol trovare senza scosse il trapasso dai
corpi all'atmosfera. E infine la sua pittura, immagini e sostanze, evapora; in certi casi le sue figure non sono
più che addensamenti di vapori colorati. Si ridusse a creare il suo mondo di sogno con il colore scorporato
e l'atmosfera lagunare. Non c'è più nulla che tenga insieme e colleghi quella pittura ondeggiata ne' cieli, se
non il suo capriccio di esistere. Ma basterà un colpo di vento perchè essa dilegui a filacce iridate nel sereno.
Il Bazzani aveva a Mantova dinanzi a sè esempi di animoso impeto ne' saggi di Rubens, e di den-
sità coloristica in quelli del Feti; non gli furono probabilmente sconosciute neanche le belle miscele che Fran-
cesco Maffei adoperava con tanta libertà. Fuse le paste fetiane in un massello grasso, liquescente : e volle
manipolarle alla maniera di Rubens, con gran colpi di bravura. Adopera la materia avanti che sia rafferma,
ancora mobile e calda; il suo sembra un mondo che si stia formando nelle sostanze disciolte del caos, un
istante prima che il rassodamento delle forme sia avvenuto; e vi è ancora percepibile la unicità della materia
di cui tutto si crea. Un fumo sta per addensarsi in un velo, e una carnosità può squagliarsi, da un mo-
mento all'altro, in un fumo addensato.
Solo le masse late e spesse si percepiscono realizzate, le piccole e le minute si presentono in un bri-
vido e in una ondulazione della materia, che non è ancora la cosa formata ma solo la volontà che essa ha
di giungere all'esistenza. Un sorriso non è che una diffusione di luce su un volto, non ancora rappresa nel
disegno delle labbra e nell'accensione dello sguardo. Siamo davanti a una pittura in via di elaborazione che
tende con energia alla forma, alla concrezione, al colore individuato, alla separazione della luce dalle tenebre,
ma non le ha ancora raggiunte. E non le raggiungerà. Il suo grado di vita è questo. Costruendosi ancora
più perderebbe ogni incanto: che non è piccolo e ci piglia con tanta malfa.
GLI ARCADI
E I CICISBEI.
7. - E il discorso sarebbe finito se non ci restasse da ricordare alcuni squisiti cronisti della vita veneziana.
Uno è quell' Ignoto, quasi un grande, autore del « Parlatorio », e del « Ridotto »; che non è Guardi
perchè di lui meno mobile sebbene costruisca le sue figure con altrettanta spigliatezza di falde cromatiche;
che non è Longhi, ma molto sopra di lui per interesse puro di pittura.
Un'altra è Rosalba Carriera, che compone i suoi pastelli di primule, pratoline, margherite, fiori scempi
di prima primavera; e in cento ritratti tutti egualmente deliziosi e inconsistenti, da lasciarci sopra gli occhi e che
non sanno di nulla, narra l'eterno femminino lagunare a tempo delle ciprie scosse sulle chiome dalle ali d'Amore.
E c'è poi Pietro Longhi, uno dei pochi pittori di fama che esce dalla Mostra fiorentina diminuito;
gazzettino pittorico degli usi e costumi, e ciacole e maldicenze nei caffè goldoniani. Egli è troppo liscio e
assettato, e vorremmo nei suoi quadretti più riccioli e trine e falbalà di pittura. Un po' dello spirito, met-
tiamo, che è nelle parabole del Feti. Ma forse infine quei tanti signori, damerini e ballerini, di cui ci racconta
i giorni e le ore erano proprio menciarelli, piatti e scipiti come lui ce li mostra: e il torto è tutto nostro.
A quest'arcadia di città non poteva mancare l'arcadia di campagna: le pastorellerie e le «feste ga-
lanti » trovarono i loro bucolici in Francesco Zuccarelli prima e nel Diziani e nello Zais dopo. Non indegni,
suonando la zampogna in tono minore, di chiudere la discendenza di Marco Ricci e del Marieschi. Il Bat-
taglieli invece si tenne più, con belle immaginazioni, al fare del Canaletto.
E da ultimo il figlio di Pietro, Alessandro Longhi, fu un gran ritrattista, di modi tiepoleschi prima,