Nessun tentativo di descrizione di qualunque aspetto della realtà può fare a meno di
precisare l’oggetto della propria analisi. Ciò è particolarmente vero nel caso dell’arte
popolare, in cui molti fattori, tra i quali l’attuale pluralismo estetico responsabile del
venir meno di criteri verificabili, le speculazioni finanziarie che approfittano
dell’ignoranza dell’acquirente, e persino la pressione esercitata dalle ideologie
politiche, hanno fatto sì che molta parte dei prodotti attualmente presentati e venduti
come opere dell’arte popolare non abbiano diritto a nessuno dei due attributi di questa
definizione: né sono prodotti della cultura popolare, né opere d’arte. II vero problema
di una definizione consiste, non tanto nella risposta alla domanda «che cosa è l’arte
popolare», ma piuttosto «quali fenomeni siamo autorizzati a definire arte popolare».
Per svolgere correttamente questo compito, occorre che il termine «arte popolare»
venga inteso in senso storico, in quanto definisce fenomeni artistici manifestatisi in
conseguenza dell’esistere di condizioni favorevoli al loro sorgere, in un determinato
territorio e in un determinato periodo di tempo. La condizione fondamentale è
l’esistenza di un’arte esercitata da artisti di professione per soddisfare i bisogni dei ceti
sociali più elevati, e di una cultura artistica dei ceti popolari soprattutto contadini
diversa da quella. È dunque comprensibile che di arte popolare si possa parlare solo in
quella fase di accentuata differenziazione sociale che ha fatto seguito allo sviluppo
dell’agricoltura e alla nascita delle città come centri di attività economica non agricola.
Se in una società non esiste una simile differenziazione culturale, come accade nella
maggior parte delle culture esotiche, l’uso del termine «arte popolare» è privo di senso
(cosa che accade di frequente), in quanto esso viene allora a definire piuttosto tutta
quanta l’arte prodotta in quella società. A seconda delle condizioni economiche
dell’acquirente, i prodotti artistici di tali culture vengono differenziati in relazione alle
loro dimensioni e alla loro ricchezza, non presentando sostanziali differenze di stile.
Affatto diverso è invece il problema della duplicità della cultura artistica che viene
espressa da un popolo che sia stato conquistato da un altro popolo di diversa
tradizione.
Senza volerci addentrare nell’analisi di sistemi artistici altamente sviluppati in ambiti
culturali extra-europei, primi fra tutti Cina e Giappone, occorre notare che la suddetta
differenziazione si è espressa con particolare evidenza nella cultura artistica europea,
raggiungendo la massima intensità nei secoli XVIII e XIX. In quell’epoca l’arte dei ceti
più elevati di quasi tutti i paesi europei era dominata da una concezione teorica
omogenea, quella classico-naturalistica, e omogenea era anche la modalità delle
soluzioni formali mutuate dall’arte dei tre paesi guida in quel tempo: prima l’Italia e
poi anche i Paesi Bassi e la Francia.
Dal Rinascimento in poi, le capacità necessarie all’esercizio della professione di artista
che godesse pieno riconoscimento da parte dei ceti sociali dominanti non poterono più
essere trasmesse, come avveniva nel Medioevo, solo attraverso la tradizione delle
botteghe. Dall’artista si cominciò a pretendere anche il perfetto dominio di campi quali
la prospettiva geometrica e l’anatomia e una conoscenza approfondita della cultura
filosofico-letteraria. Fu un fenomeno affascinante, che fece degli artisti più eminenti
del Rinascimento dei veri e propri esploratori scientifici della realtà che ci circonda.
Però questa del resto breve integrazione di arte e scienza finì con l’escludere dall’arte
ufficiale tutta una serie di artisti cui minori capacità o semplicemente la mancanza di
possibilità non permisero di acquisire il bagaglio di nuove conoscenze richiesto dai
tempi. Venne così a formarsi una sorta d’arte di provincia, in gran quantità, che della
grande arte pareva una riduzione, a volte una caricatura, ad essa attingendo le
tematiche e sforzandosi di imitarne pedissequamente le soluzioni formali. In questa
corrente si ritrovarono anche le svariate tradizioni medievali e locali dal carattere di
regola anticlassico e antinaturalistico.
Le opere d’arte di provincia sono caratterizzate di solito — indipendentemente
dall’ambiente in cui vengono prodotte — da staticità e ritmizzazione delle forme, da
simmetria di rapporti nella composizione, dal prevalere delle forme bidimensionali
sulle rappresentazioni spaziali, da tipizzazione e ingenuità nella caratterizzazione
psicologica, infine da una predilezione spesso eccessiva per gli ornamenti. Di solito
però si ritrova più o meno evidente il collegamento con le soluzioni proprie della
«grande» arte, palese a volte nell’intento di imitare ad ogni costo e contro la tendenza
naturale dell’artista.
La periodizzazione dell’arte di provincia coincide in sostanza con quella adottata per
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precisare l’oggetto della propria analisi. Ciò è particolarmente vero nel caso dell’arte
popolare, in cui molti fattori, tra i quali l’attuale pluralismo estetico responsabile del
venir meno di criteri verificabili, le speculazioni finanziarie che approfittano
dell’ignoranza dell’acquirente, e persino la pressione esercitata dalle ideologie
politiche, hanno fatto sì che molta parte dei prodotti attualmente presentati e venduti
come opere dell’arte popolare non abbiano diritto a nessuno dei due attributi di questa
definizione: né sono prodotti della cultura popolare, né opere d’arte. II vero problema
di una definizione consiste, non tanto nella risposta alla domanda «che cosa è l’arte
popolare», ma piuttosto «quali fenomeni siamo autorizzati a definire arte popolare».
Per svolgere correttamente questo compito, occorre che il termine «arte popolare»
venga inteso in senso storico, in quanto definisce fenomeni artistici manifestatisi in
conseguenza dell’esistere di condizioni favorevoli al loro sorgere, in un determinato
territorio e in un determinato periodo di tempo. La condizione fondamentale è
l’esistenza di un’arte esercitata da artisti di professione per soddisfare i bisogni dei ceti
sociali più elevati, e di una cultura artistica dei ceti popolari soprattutto contadini
diversa da quella. È dunque comprensibile che di arte popolare si possa parlare solo in
quella fase di accentuata differenziazione sociale che ha fatto seguito allo sviluppo
dell’agricoltura e alla nascita delle città come centri di attività economica non agricola.
Se in una società non esiste una simile differenziazione culturale, come accade nella
maggior parte delle culture esotiche, l’uso del termine «arte popolare» è privo di senso
(cosa che accade di frequente), in quanto esso viene allora a definire piuttosto tutta
quanta l’arte prodotta in quella società. A seconda delle condizioni economiche
dell’acquirente, i prodotti artistici di tali culture vengono differenziati in relazione alle
loro dimensioni e alla loro ricchezza, non presentando sostanziali differenze di stile.
Affatto diverso è invece il problema della duplicità della cultura artistica che viene
espressa da un popolo che sia stato conquistato da un altro popolo di diversa
tradizione.
Senza volerci addentrare nell’analisi di sistemi artistici altamente sviluppati in ambiti
culturali extra-europei, primi fra tutti Cina e Giappone, occorre notare che la suddetta
differenziazione si è espressa con particolare evidenza nella cultura artistica europea,
raggiungendo la massima intensità nei secoli XVIII e XIX. In quell’epoca l’arte dei ceti
più elevati di quasi tutti i paesi europei era dominata da una concezione teorica
omogenea, quella classico-naturalistica, e omogenea era anche la modalità delle
soluzioni formali mutuate dall’arte dei tre paesi guida in quel tempo: prima l’Italia e
poi anche i Paesi Bassi e la Francia.
Dal Rinascimento in poi, le capacità necessarie all’esercizio della professione di artista
che godesse pieno riconoscimento da parte dei ceti sociali dominanti non poterono più
essere trasmesse, come avveniva nel Medioevo, solo attraverso la tradizione delle
botteghe. Dall’artista si cominciò a pretendere anche il perfetto dominio di campi quali
la prospettiva geometrica e l’anatomia e una conoscenza approfondita della cultura
filosofico-letteraria. Fu un fenomeno affascinante, che fece degli artisti più eminenti
del Rinascimento dei veri e propri esploratori scientifici della realtà che ci circonda.
Però questa del resto breve integrazione di arte e scienza finì con l’escludere dall’arte
ufficiale tutta una serie di artisti cui minori capacità o semplicemente la mancanza di
possibilità non permisero di acquisire il bagaglio di nuove conoscenze richiesto dai
tempi. Venne così a formarsi una sorta d’arte di provincia, in gran quantità, che della
grande arte pareva una riduzione, a volte una caricatura, ad essa attingendo le
tematiche e sforzandosi di imitarne pedissequamente le soluzioni formali. In questa
corrente si ritrovarono anche le svariate tradizioni medievali e locali dal carattere di
regola anticlassico e antinaturalistico.
Le opere d’arte di provincia sono caratterizzate di solito — indipendentemente
dall’ambiente in cui vengono prodotte — da staticità e ritmizzazione delle forme, da
simmetria di rapporti nella composizione, dal prevalere delle forme bidimensionali
sulle rappresentazioni spaziali, da tipizzazione e ingenuità nella caratterizzazione
psicologica, infine da una predilezione spesso eccessiva per gli ornamenti. Di solito
però si ritrova più o meno evidente il collegamento con le soluzioni proprie della
«grande» arte, palese a volte nell’intento di imitare ad ogni costo e contro la tendenza
naturale dell’artista.
La periodizzazione dell’arte di provincia coincide in sostanza con quella adottata per
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