RIVISTA DI TOPOGRAFIA ED ARTE NAPOLETANA
179
Spinelli nel 1744 rifece la tribuna come è nello stato
presente, elevandola con una scalinata di marmo. Questo
buon Arcivescovo ridusse ad acquales rationes quidquid in
hujus basilicae aediculis coeteróque cultu abnorme erat, come
dice l’iscrizione appostavi, vale a dire distrusse tutto quello
che vi era rimasto d’antico, e fece quanto potea per ren-
dere barocche le cappelle, gli altari, le navate. Così ri-
mase il nostro Duomo per circa un secolo.
Nel 1837 venne in mente all’Arcivescovo Filippo Ca-
racciolo Giudice di ristaurarlo e ritornarlo, per quanto si
potea, all’antico splendore dello stile gotico. Il lavoro durò
fino al 1844. Furono scoperte le colonne, tolti i cartocci
e gli altri fregi barocchi, le finestre rifatte a sesto acuto
e le mura riviste di marmi e di stucchi colorati. Se
non fu un completo ritorno all’antico, fu al certo un mi-
glioramento. L’architetto che compì il restauro fu Raf-
faele Cappelli.
La facciata intanto era stata rifatta nel 1788 per opera
dell’Arcivescovo Capece Zurlo sotto la direzione dell’ar-
chitetto Tommaso Senese. Essa, sebbene di linee troppo
geometriche, non era spregevole e stava in una certa ar-
monia colla porta del Baboccio e con l’interna partizione
della chiesa: l’architetto si era servito della forma esterna
antica, non alterandola, e seguendo la inclinazione dei tetti
della navata media.
Però quel gotico serbava il carattere del tempo in cui
fu fatto: era un gotico del secolo XVIII. Nel 1870 il Car-
dinal Sisto Riario Sforza pensò di rifare con magnificen-
za la facciata. Bandito un concorso, fu scelto il disegno
dell’ ingegnere Errico Alvino, che per la sua morte non
potette cominciarne l’esecuzione. Essa fu affidata agli ar-
chitetti Breglia e Pisanti, i quali vi apportarono alcune
modificazioni. Il giorno 7 luglio 1877 fu messa con gran
pompa la prima pietra, e, con varia vicenda, l’opera si
continua ancora ai nostri giorni.
La facciata è tricuspidale. Con savio intendimento vien
conservata l’antica porta, al di sopra della quale sarà po-
sto un rosone tondo scolpito in pietra. Ai fianchi due
torri dell’altezza di 68 metri.
Questa opera accrescerà il lustro e il decoro della no-
stra chiesa maggiore, e su di essa si potrà dare un giu-
dizio adeguato, dopo che sarà compita. Pensino però gli
architetti direttori a liberarla da quei brutti archi che la
fiancheggiano, costruiti molti anni fa dal Municipio, il quale
con inaudita presunzione li battezzò modestamente col no-
me di Portico Monumentale! E per maggiore obbrobrio
pose nelle lunette di quegli archi i busti dello Zingaro,
di Masuccio e di tanta altra gente, che non ha passeggiato
mai per questo mondo.
Ludovico de la Ville sur-Yllon.
DI ALCUNI QUADRI
CONSERVATI NEL R. MUSEO DI NAPOLI
Giulio Cesare Amidano nacque in Parma poco oltre
alla metà del secolo XVI e vi morì probabilmente per la
peste del 1630. Cominciò dal seguire lo stile del Parmi-
gianino, poi man mano, abbandonandosi al gusto proprio,
finì per eccede nell’uso d’un contrapposto troppo vio-
lento fra le ombre e le luci. Giustamente il Ratti lo rim-
provera d’esser talora piatto, senza molto rilievo. Ad ogni
modo bisogna riconoscerlo vigoroso nel colore, quanto
largo e sicuro nella composizione. Esercitò molta influenza
sullo Schedoni. Dipinse quadri, in Parma, per la chiesa
del Quartiere e per la Trinità, e, fuori, per la parrocchiale
di Vigatto (1612), e per S. Chiara di Casalmaggiore. Già
vecchissimo, nel 1628 decorò d’affreschi a chiaroscuro,
ora perduti, l’arco trionfale di S. Lazzaro alzato in me-
moria delle nozze di Odoardo Farnese con Maria de’ Me-
dici.
Più giovine di lui, d’un decennio appena, fu Bartolomeo
Schedoni modenese morto in Parma nel 1615. Studiò sul
Correggio, ma a torto è indicato quale suo seguace ed
imitatore. Come molti altri artisti del suo tempo, subì
l’influenza della scuola bolognese, ma più specialmente si
tenne al fare dell’Amidano. Dipinse spesso con violenza
di chiari e d’ombre e con tinte nelle carni troppo rosse.
I contemporanei l’ammirarono su tutti quasi i pittori, e
il suo stile fu chiamato dal cav. Marino e dal Padre Resta
« tremendo ». La sua pittura è forse troppo decorativa.
Non è possibile però negargli forte ingegno, bravura e
rapidità d’esecuzione.
Com’è facile immaginare, le opere di questi due artisti
(lo Schedoni e l’Amidano) fioriti nello stesso tempo e nella
stessa città e con un sentimento ugualmente eccessivo del
chiaroscuro, sono state spesso confuse; e poiché il nome
dello Schedoni è assai più conosciuto di quello dell’Ami-
dano, così le opere dell’ultimo sono state con maggiore
frequenza assegnate al primo.
Nella raccolta Farnese, passata da Parma a Napoli nel
1734, si trovano diversi quadri dell’uno e dell’altro. Pure
il catalogo del 1892 non fa nome che dello Schedoni, cui
sono attribuiti i seguenti.
Sala IV:
a) Num. 16. La carità cristiana.
b) » 21. Amore in riposo.
c) » 22. La cena di N. S. in Emmaus.
d) » 23. Sacra famiglia.
179
Spinelli nel 1744 rifece la tribuna come è nello stato
presente, elevandola con una scalinata di marmo. Questo
buon Arcivescovo ridusse ad acquales rationes quidquid in
hujus basilicae aediculis coeteróque cultu abnorme erat, come
dice l’iscrizione appostavi, vale a dire distrusse tutto quello
che vi era rimasto d’antico, e fece quanto potea per ren-
dere barocche le cappelle, gli altari, le navate. Così ri-
mase il nostro Duomo per circa un secolo.
Nel 1837 venne in mente all’Arcivescovo Filippo Ca-
racciolo Giudice di ristaurarlo e ritornarlo, per quanto si
potea, all’antico splendore dello stile gotico. Il lavoro durò
fino al 1844. Furono scoperte le colonne, tolti i cartocci
e gli altri fregi barocchi, le finestre rifatte a sesto acuto
e le mura riviste di marmi e di stucchi colorati. Se
non fu un completo ritorno all’antico, fu al certo un mi-
glioramento. L’architetto che compì il restauro fu Raf-
faele Cappelli.
La facciata intanto era stata rifatta nel 1788 per opera
dell’Arcivescovo Capece Zurlo sotto la direzione dell’ar-
chitetto Tommaso Senese. Essa, sebbene di linee troppo
geometriche, non era spregevole e stava in una certa ar-
monia colla porta del Baboccio e con l’interna partizione
della chiesa: l’architetto si era servito della forma esterna
antica, non alterandola, e seguendo la inclinazione dei tetti
della navata media.
Però quel gotico serbava il carattere del tempo in cui
fu fatto: era un gotico del secolo XVIII. Nel 1870 il Car-
dinal Sisto Riario Sforza pensò di rifare con magnificen-
za la facciata. Bandito un concorso, fu scelto il disegno
dell’ ingegnere Errico Alvino, che per la sua morte non
potette cominciarne l’esecuzione. Essa fu affidata agli ar-
chitetti Breglia e Pisanti, i quali vi apportarono alcune
modificazioni. Il giorno 7 luglio 1877 fu messa con gran
pompa la prima pietra, e, con varia vicenda, l’opera si
continua ancora ai nostri giorni.
La facciata è tricuspidale. Con savio intendimento vien
conservata l’antica porta, al di sopra della quale sarà po-
sto un rosone tondo scolpito in pietra. Ai fianchi due
torri dell’altezza di 68 metri.
Questa opera accrescerà il lustro e il decoro della no-
stra chiesa maggiore, e su di essa si potrà dare un giu-
dizio adeguato, dopo che sarà compita. Pensino però gli
architetti direttori a liberarla da quei brutti archi che la
fiancheggiano, costruiti molti anni fa dal Municipio, il quale
con inaudita presunzione li battezzò modestamente col no-
me di Portico Monumentale! E per maggiore obbrobrio
pose nelle lunette di quegli archi i busti dello Zingaro,
di Masuccio e di tanta altra gente, che non ha passeggiato
mai per questo mondo.
Ludovico de la Ville sur-Yllon.
DI ALCUNI QUADRI
CONSERVATI NEL R. MUSEO DI NAPOLI
Giulio Cesare Amidano nacque in Parma poco oltre
alla metà del secolo XVI e vi morì probabilmente per la
peste del 1630. Cominciò dal seguire lo stile del Parmi-
gianino, poi man mano, abbandonandosi al gusto proprio,
finì per eccede nell’uso d’un contrapposto troppo vio-
lento fra le ombre e le luci. Giustamente il Ratti lo rim-
provera d’esser talora piatto, senza molto rilievo. Ad ogni
modo bisogna riconoscerlo vigoroso nel colore, quanto
largo e sicuro nella composizione. Esercitò molta influenza
sullo Schedoni. Dipinse quadri, in Parma, per la chiesa
del Quartiere e per la Trinità, e, fuori, per la parrocchiale
di Vigatto (1612), e per S. Chiara di Casalmaggiore. Già
vecchissimo, nel 1628 decorò d’affreschi a chiaroscuro,
ora perduti, l’arco trionfale di S. Lazzaro alzato in me-
moria delle nozze di Odoardo Farnese con Maria de’ Me-
dici.
Più giovine di lui, d’un decennio appena, fu Bartolomeo
Schedoni modenese morto in Parma nel 1615. Studiò sul
Correggio, ma a torto è indicato quale suo seguace ed
imitatore. Come molti altri artisti del suo tempo, subì
l’influenza della scuola bolognese, ma più specialmente si
tenne al fare dell’Amidano. Dipinse spesso con violenza
di chiari e d’ombre e con tinte nelle carni troppo rosse.
I contemporanei l’ammirarono su tutti quasi i pittori, e
il suo stile fu chiamato dal cav. Marino e dal Padre Resta
« tremendo ». La sua pittura è forse troppo decorativa.
Non è possibile però negargli forte ingegno, bravura e
rapidità d’esecuzione.
Com’è facile immaginare, le opere di questi due artisti
(lo Schedoni e l’Amidano) fioriti nello stesso tempo e nella
stessa città e con un sentimento ugualmente eccessivo del
chiaroscuro, sono state spesso confuse; e poiché il nome
dello Schedoni è assai più conosciuto di quello dell’Ami-
dano, così le opere dell’ultimo sono state con maggiore
frequenza assegnate al primo.
Nella raccolta Farnese, passata da Parma a Napoli nel
1734, si trovano diversi quadri dell’uno e dell’altro. Pure
il catalogo del 1892 non fa nome che dello Schedoni, cui
sono attribuiti i seguenti.
Sala IV:
a) Num. 16. La carità cristiana.
b) » 21. Amore in riposo.
c) » 22. La cena di N. S. in Emmaus.
d) » 23. Sacra famiglia.