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CASA DETTA DEI CAPITELLI COLORATI 5

Innanzi di passare oltre giova notare che la esedra segnata col n.° 24, cinta di marmi verso la
sua bocca, come dicevamo di sopra, è fiancheggiata da due località le quali rispondono tutte e due,
come la esedra stessa, nel peristilio n.° 18, e che un'angusta scaletta la quale giace limitrofe appunto
alla seconda delle citate località, anch'essa rispondente nel peristilio, sembra che menar dovesse al
piano superiore della casa.

L'altro grande peristilio di questa sontuosa dimora è nella nostra pianta notata sotto il n.° 51, e
nel suo mezzo tutt'ora conservansi le vestigia delle piantagioni svariate, e quivi dagli antichi disposte
nel modo appunto come si veggono nella pianta delineate.

Ventiquattro colonne di un ordine delicatamente lavorato di stucco, e messo a colori, come vedesi
ai n.' 40, e 41, formavano questo gran portico, ed il lettore facilmente scorgerà come quest'ordine
appartenga ad un tipo, che del toscano e del dorico partecipa. Nel mezzo del peristilio, nella vasca
n.° 32 si versava l'acqua che quivi pollava, e quindi scorreva ad irrigare l'elegante giardinetto.
Fu in questo luogo rinvenuto il frammento marmoreo da noi fatto disegnare al n.° 43, e che servir
doveva forse a raccogliere ed a condurre le acque. Tutte le località di questo peristilio poste sul Iato
il quale risponde sul tablino n.° 28, non che quelle delineate sul lato destro, e senza indicazione di
numeri, ora sono talmente malconcc che in vero non può darsi di questa quasi descrizione alcuna,
né dal giornale degli scavi ci è concesso ricavare la loro disposizione ornamentale, mentre dall'opposta
parte tutte le stanze segnate col n.° 33 par chiaro che servissero di ergastoli, o abitazioni di schiavi,
essendo disadorne affatto, e ricoperte di rozza tonaca bianca.

Una specie di edicola, posta nel breve compreso n.° 54, ci fa credere che quivi fosse il sacrario.
L'adito postico di questa dimora, n.° 35, fiancheggiato dalle botteghe 36 37 e 38, risponde dove ha
l'ingresso la maestosa casa detta del Fauno, e sopra i pilastri di questo ingresso due capitelli ornati
di figure e fogliami posavano, i quali sono al certo un pregevole esempio di architettonica decorazione,
n.° 42, e che al dire degli artisti, accenna ad una maniera traente al greco, esempio che ripetute
volte è facile d'incontrare in Pompei.

Avendo di volo percorsa la pianta della casa, diremo ora, non meno brevemente, delle pitture
migliori quivi rinvenute. Nell'ala n.° 14 stava quella rappresentanza che abbiam fatto ricopiare nella
Tav. III., nel primo ordine dei quattro dipinti, a destra, e che la favola di Apollo e Dafne esprime.
Apollo armato della lira e del turcasso quivi raggiunge la desiderata Ninfa, che cominciasi a trasformare
in lauro, come il pittore accennava in quel ramo, che sulla testa della donzella vedesi spuntare. Questa
pittura, non appena rinvenuta, venne illustrata dal chiaris. commendatore Bernardo Quaranta, il quale
più della favola che del dipinto invero fu vago nella sua dotta illustrazione. Egli dice, a questo proposito,
che tale favola fu inventata dai sacerdoti di Apollo per ispiegare il perchè la pianta del lauro avesse
tanta parte nel culto di quel Nume. Il chiaro archeologo soggiunge che Dafne in greco vuol dire
lauro, e l'espressioni Apollo ama Dafne che in greco valer potevano Apollo ama il lauro, per amor
del meraviglioso furono tradotte ancora : Apollo ama una donzella chiamata Dafne, e come il lauro
non ama troppo la luce e meglio cresce all'ombra, scambiatasi la pianta in donzella si propagò che
Dafne odiava Apollo. Queste induzioni fanno dire da ultimo all'illustratore che così anche gl'Indiani
asseriscono che l'albero appellato Marija purre jam, fosse stata una giovinetta trasformata in pianta
per aver ricusato l'amore del sole, il che nuli'altro importa, dice il Quaranta, se non che le foglie
di quella si sviluppano la notte, e s'illanguidiscono al comparire del giorno.1 Lasceremo il lettore
o-iudice di queste geniali investigazioni, e passeremo oltre.

Ganimede che ministra all'aquila di Giove è l'argomento di una seconda pittura da noi menzionata
di sopra, e che ornava la stanza num. 17 della pianta. Discordi gli antichi nel tessere la storia di
Ganimede, tutti però concordano nel dire che l'iliaco garzone fu trasportato in cielo per esercitarvi
l'uffizio di coppiere. E come tale è rappresentato in questa pittura pompeiana, seduto mollemente
sopra un sasso posto in terreno coperto di alberi, ed innanzi ad una torre, dove forse l'aquila
ricoverava. Con bella movenza porge alla grifagna un'ampia patera che il rostro vi appressa avidamente.
In questa pittura sono vaghissimi i tratti del vezzoso giovane, e si confonderebbero, disse il citato
chiaris. Quaranta nel descrivere questo dipinto, con quelli di Paride e Narciso, se dal primo noi
distinguesse la mancanza delle anassiridi, e dal secondo il frigio berretto 2.

Nella tavola III il dipinto che è posto al fianco di quello poco innanzi descritto rappresentante
Apollo e Dafne, fu anch'esso nella stanza segnata col n.° 17 della pianta rinvenuto. Lo illustrarono,
non appena scoverto, il dotto è rimpianto Francesco Maria Avellino, e l'egregio or citato commendatore

' Real Museo voi. XII tav. XXXIII.

1 Mus. cit. voi. XI tav. XXXVI.
 
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