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D EC IMO S E STO.
xxii.
Deh, poiché sdegni me, com'egli è vago
Mirar tu almen potessi il proprio volto :
Che '1 guardo tuo, eh' altrove non è pago,
Gioirebbe felice in se rivolto.
Non può specchio ritrar sì dolce imago:
Ne in picciol vetro è un paradiso accolto.
Specchio t'è degno il cielo, e nelle stelle
Puoi riguardar le tue sembianze belle.
xxiii.
Ride Armida a quel dir: ma non che cesse
Dal vagheggiarli, o da' suoi bei lavori.
Poiché intrecciò le chiome, e che ripresse
Con ordin vago i lor lascivi errori 3
Torse in anella i crin minuti, e in esse,
Quali smalto su l'or, consparse i fiori :
E nel bel sen le peregrine rose
Giunse ai nativi gigli, e'1 vel compose.
xxiv.
Né '1 superbo pavon sì vago in m olirà
Spiega la pompa delle occhiute piume:
Ne l'Iride sì bella indora, e inoltra
Il curvo grembo e rugiadoso al lume.
Ma bel sovra ogni fregio il cinto mostra,
Che neppur nuda ha di lasciar costume.
Die corpo a chi non l'ebbe, e quando il fe
Tempre mischiò, ch'altrui meseer non lece
xxv.
Teneri sdegni, e placide e tranquille
Repulse, cari vezzi, e liete paci,
Sorrisi, parolette, e dolci (lille
Di pianto, e sospir tronchi, e molli baci}
Fuse tai cose tutte, e poseia unille,
Ed al foco temprò di lente faci :
E ne formò quel sì mirabil cinto,
Di ch'ella aveva il bel fianco succinto.
( 185 )
 
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