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DECIMO TERZO.
XXII.
In tutti allor s'impallidir le gote,
E la temenza a mille segni apparse.
Ne disciplina tanto, o ragion puote,
CrYosin di gire innanzi, o di fermarle :
Ch' all' occulta virtù, che gli percuote,
Son le difese loro anguste e scarse.
Fuggono alfine ; e un d'elsi , in cotal guisa
Scusando il fatto, il pio Buglion n'avvisa.
XXIII.
Signor, non è di noi chi più si vante
Troncar la selvaj ch'ella è si guardata,
Ch'io credo (e'1 giurerei) che in quelle piante
Abbia la reggia su a Pluton traslata.
Ben ha tre volte e più d'aspro diamante
Ricinto il cor, eh' intrepido la guata :
Nè senso v' ha colui, eh' udir s' arrisehia
Come tonando in sieni e rugge, e fisehia.
XXIV.
Così costui parlava. Alcasto v'era
Fra molti che '1 udian preserite a sorte :
Uom di temerità stupida, e fera :
Sprezzator de' mortali, e della morte :
Che non avria temuto orribil fera,
Nè mostro formidabile ad uom forte,
Nè tremoto, nè folgore, nè vento,
Nè s'altro ha il mondo più di violento.
xxv.
Crollava il capo, e sorridea dicendo :
Dove costui non osa io gir confido :
Io sol quel boseo di troncar intendo,
Che di torbidi sogni è fatto nido.
Già noi mi vieterà fantasma orrendo,
Nè di selva, o d'augei fremito o grido.
O pur tra quei sì spaventosi chiostri
D'ir nell' inferno il varco a me si moiìri.
( 155 )
 
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