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ADOLFO VENTURI
lengo, il Borbone con le orde del Frundesberg avanzava su Roma, e vi entravano i
lanzichenecchi briachi di sangue e d'odio contro gli uomini e contro Dio.
La Rinascita aveva occhi per sè, non per -il mondo in cui fioriva. La vita è bella,
il piacere ne è il senso, l'arte la riflette, la gloria la culla nel sogno: così pensava l'uomo
del Rinascimento: per lui non spine nella via della virtù, nè duri gioghi al dovere, cilici
sulla coscienza, siepi all'individualismo. Tranquillità di azzurro mare, riso di cielo non
solcato da nubi, folleggiar di Naiadi sulla spuma delle onde, abbandono carezzevole
di ninfe sulla natura in fiore, danza degli Amori intrecciata con le ore del giorno: ecco
il mondo quale apparve a Raffaello d'Urbino. A questo rappresentante della Rinascita
si contrappose Michelangelo: quegli ne foggiò il simulacro, questi la chiuse nel tempio di
Giano; il primo ne fu il trovatore, il secondo l'oracolo.
Ma, nel vaticinio, il Buonarroti è invaso da tristezza; sulla sua anima calano le
ombre del dolore umano; i suoi atleti s'agitano sotto l'imperio del suo sguardo corruc-
ciato; i suoi eroi nella gloria odono il grido della terra derelitta. Non gioia, non canti,
non feste ne' giorni afosi terminali della Rinascita.
L'arte di Michelangelo è espressione del tempo turbinoso che si preparava per
l'Italia, per la civiltà, per il mondo; ed è bello parlarne oggi che la secolare tormenta
è cessata, e il sole infiamma di gloria l'Italia.
Il martirio della patria non distrusse mai la forza latina, le radici del Comune ita-
lico, i bandi del diritto eterno di nostra gente, i fulgori della bellezza consacrata da
Dante e da Michelangelo.
Andiamo dunque, men tristemente, a ritroso de' tempi, all'anno 1513, quando,
all'Italia liberata da Giulio II, apparvero due monumenti che il tempo ha fatto eterni,
la Stanza d'Eliodoro di Raffaello e la volta della Cappella Sistina di Michelangelo.
Quella risuona del trionfo del pontefice Giulio II, questa echeggia di un grido potente
per il dirupare dell'umanità.
Giulio II, nel 1513, prima di morire, vide il trionfo de' suoi sogni: la Francia, ca-
duto Gastone di Foix con la vittoria in pugno, battere in ritirata; Luigi XÌI peregri-
nare a Canossa; il covo del nibbio, quello dei Bentivoglio a Bologna, andar distrutto;
il duca di Ferrara, Alfonso I d'Este, che aveva gettata la spingarda detta la Giulia, col
bronzo d'una statua del pontefice, fuggir da Roma in abito or di soldato, or di caccia-
tore e or di umilissimo servo, e Ludovico Ariosto, suo inviato, per non esser gettato
in mare, riprendere a gran passi la via del ritorno; il gonfaloniere della repubblica
fiorentina, il Soderini, rifugiarsi in Turchia; i Medici ritornare a Firenze, poi che Prato
fu inondata di sangue dagli Spagnuoli; Massimiliano I imperatore, Enrico Vili d'Inghil-
terra, Ferdinando V di Spagna, la Serenissima inchinarsi tutti devotamente alla sovra-
nità pontificale. Ciò che il poeta Gio. Antonio Flaminio aveva invocato, esaltando il
gran disegno del pontefice di liberare l'Italia dal giogo straniero, si andava compiendo.
E Giulio II pensava perfino di far partire gli Spagnuoli da Napoli, com'eran partiti i
Francesi di Lombardia: « i Napoletani », diceva il fierissimo vecchio battendo a terra
la grossa cannai « se il cielo lo permette, avranno ben presto un altro padrone ». Anche
nel delirio dell'ultim'ora, gridava: « Fuori i Barbari! ».
Sullo sfondo di Roma par che perda di terribilità il pontefice Giulio II, e che prenda
rilievo per i suoi magni edifici, più che per le sue battaglie. Quantunque sembri estraneo
alla vita culturale, tanto da rispondere a Michelangelo, che gli chiedeva se dovesse rap-
presentarlo con un libro tra le mani: « Che libro? Una spada; che io per me non so let-
tere », Giulio II vivrà, più che per l'entrata dalla breccia delle mura a Mirandola, per
la protezione da lui data a Bramante, a Raffaello, a Michelangelo. Il papa guerriero,
il duce di soldatesche, il politico audace, il burbero vecchio ci appare sotto Yarcus Domi-
tiani, come lo ammirò il popolo di Roma, risorto Domiziano trionfatore, e come lo
vide Erasmo di Rotterdam, circondato di pompa pagana: « non sine tacito gemitìi
spectabam ».
ADOLFO VENTURI
lengo, il Borbone con le orde del Frundesberg avanzava su Roma, e vi entravano i
lanzichenecchi briachi di sangue e d'odio contro gli uomini e contro Dio.
La Rinascita aveva occhi per sè, non per -il mondo in cui fioriva. La vita è bella,
il piacere ne è il senso, l'arte la riflette, la gloria la culla nel sogno: così pensava l'uomo
del Rinascimento: per lui non spine nella via della virtù, nè duri gioghi al dovere, cilici
sulla coscienza, siepi all'individualismo. Tranquillità di azzurro mare, riso di cielo non
solcato da nubi, folleggiar di Naiadi sulla spuma delle onde, abbandono carezzevole
di ninfe sulla natura in fiore, danza degli Amori intrecciata con le ore del giorno: ecco
il mondo quale apparve a Raffaello d'Urbino. A questo rappresentante della Rinascita
si contrappose Michelangelo: quegli ne foggiò il simulacro, questi la chiuse nel tempio di
Giano; il primo ne fu il trovatore, il secondo l'oracolo.
Ma, nel vaticinio, il Buonarroti è invaso da tristezza; sulla sua anima calano le
ombre del dolore umano; i suoi atleti s'agitano sotto l'imperio del suo sguardo corruc-
ciato; i suoi eroi nella gloria odono il grido della terra derelitta. Non gioia, non canti,
non feste ne' giorni afosi terminali della Rinascita.
L'arte di Michelangelo è espressione del tempo turbinoso che si preparava per
l'Italia, per la civiltà, per il mondo; ed è bello parlarne oggi che la secolare tormenta
è cessata, e il sole infiamma di gloria l'Italia.
Il martirio della patria non distrusse mai la forza latina, le radici del Comune ita-
lico, i bandi del diritto eterno di nostra gente, i fulgori della bellezza consacrata da
Dante e da Michelangelo.
Andiamo dunque, men tristemente, a ritroso de' tempi, all'anno 1513, quando,
all'Italia liberata da Giulio II, apparvero due monumenti che il tempo ha fatto eterni,
la Stanza d'Eliodoro di Raffaello e la volta della Cappella Sistina di Michelangelo.
Quella risuona del trionfo del pontefice Giulio II, questa echeggia di un grido potente
per il dirupare dell'umanità.
Giulio II, nel 1513, prima di morire, vide il trionfo de' suoi sogni: la Francia, ca-
duto Gastone di Foix con la vittoria in pugno, battere in ritirata; Luigi XÌI peregri-
nare a Canossa; il covo del nibbio, quello dei Bentivoglio a Bologna, andar distrutto;
il duca di Ferrara, Alfonso I d'Este, che aveva gettata la spingarda detta la Giulia, col
bronzo d'una statua del pontefice, fuggir da Roma in abito or di soldato, or di caccia-
tore e or di umilissimo servo, e Ludovico Ariosto, suo inviato, per non esser gettato
in mare, riprendere a gran passi la via del ritorno; il gonfaloniere della repubblica
fiorentina, il Soderini, rifugiarsi in Turchia; i Medici ritornare a Firenze, poi che Prato
fu inondata di sangue dagli Spagnuoli; Massimiliano I imperatore, Enrico Vili d'Inghil-
terra, Ferdinando V di Spagna, la Serenissima inchinarsi tutti devotamente alla sovra-
nità pontificale. Ciò che il poeta Gio. Antonio Flaminio aveva invocato, esaltando il
gran disegno del pontefice di liberare l'Italia dal giogo straniero, si andava compiendo.
E Giulio II pensava perfino di far partire gli Spagnuoli da Napoli, com'eran partiti i
Francesi di Lombardia: « i Napoletani », diceva il fierissimo vecchio battendo a terra
la grossa cannai « se il cielo lo permette, avranno ben presto un altro padrone ». Anche
nel delirio dell'ultim'ora, gridava: « Fuori i Barbari! ».
Sullo sfondo di Roma par che perda di terribilità il pontefice Giulio II, e che prenda
rilievo per i suoi magni edifici, più che per le sue battaglie. Quantunque sembri estraneo
alla vita culturale, tanto da rispondere a Michelangelo, che gli chiedeva se dovesse rap-
presentarlo con un libro tra le mani: « Che libro? Una spada; che io per me non so let-
tere », Giulio II vivrà, più che per l'entrata dalla breccia delle mura a Mirandola, per
la protezione da lui data a Bramante, a Raffaello, a Michelangelo. Il papa guerriero,
il duce di soldatesche, il politico audace, il burbero vecchio ci appare sotto Yarcus Domi-
tiani, come lo ammirò il popolo di Roma, risorto Domiziano trionfatore, e come lo
vide Erasmo di Rotterdam, circondato di pompa pagana: « non sine tacito gemitìi
spectabam ».