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L' arte: rivista di storia dell'arte medievale e moderna — 3.1900

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Fasc. 1-4
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Hermanin, Federico: Arte contemporanea, [1]: Filiberto Petiti
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https://doi.org/10.11588/diglit.24145#0144

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io8

FEDERICO HERMANIN

Su tutto incombe il triste appressarsi dell'inverno; nel verde smorto delle canne e nelle
foglie raggrinzite e gialle, che stanno come sospese sull'acqua, è il rimpianto dell'estate. Il
pittore non ha tralasciato cosa alcuna per accrescere questo sentimento di profonda malin-
conia, e quella vecchia' staccionata grigia, tra le frasche, sul margine dell'acqua, dà una
strana e profonda suggestione di solitudine, ricordando l'uomo lontano e i suoi lavori, facendo
pensare, al di là di quella selva deserta, dove non sono più palpiti di nidi e profumi di
fiori nascosti fra il musco, ai casolari oscuri e fumosi nella nebbia.

Filiberto Petiti è stato sempre così: scorrendo la lunga serie dei suoi dipinti troverete
sempre la stessa malinconia e quel senso profondo di tristezza. Questa maniera, che a molti
parrà strana, di considerare la natura quasi solamente sotto un aspetto, è in lui naturale ; egli
sente sinceramente e profondamente la dolcezza dei cieli grigi e delle foreste ingiallite, poiché
da tutta la sua vita modesta e laboriosa è stato, per così dire, educato alla malinconia.
La prepotente tendenza all'arte, che per altri è come una gran luce che rischiara e rallegra,
è stata per lui, durante tutta la miglior parte della vita, cagione di segreti affanni, sin da
quando, fanciullo, egli ne avvertiva per la prima volta i taciti incitamenti. Giacché egli è nato
artista, e tutta la sua gioventù non è stata che una lunga speranza verso quell' arte che,
pur apparendogli come suprema gioia ed ineffabile conforto, fuggiva sempre più lontano.

Nato a Torino nel 1845, un P°' gracile e malaticcio, ultimo dei dieci figli di un corriere
di gabinetto di re Carlo Alberto, sentendosi così piccino e debole a petto dei fratelli e delle
sorelle maggiori, era tutto mamma e casa, e si straziava dal dolore quando lo mandavano
a scuola; gli pareva d'essere in esilio, e invece di trastullarsi, allegro e spensierato, con i
compagni, si struggeva nella malinconia, contando le ore e i minuti, sino al momento che
poteva tornarsene a casa dalla madre. Essa fu la prima ad accorgersi delle tendenze arti-
stiche del piccino, il quale ammirava ugualmenle le opere d'arte e gli strumenti che servono
agli artisti, e che appena aveva un briciolo di tempo libero si dava da fare coi lapis, coi
colori e coi pennelli d'uno dei suoi fratelli che frequentava l'Accademia Albertina.

Ancora adesso all'artista, incanutito nel lavoro, brillano gli occhi quando ricorda la
prima grande gioia della sua vita. Il maestro Bodojra, musicista ed amico della famiglia
Petiti, s'accorse dei desideri del piccino, ed essendo dilettante di pittura, gli permise di venire
ogni domenica a casa sua, dove gli faceva copiare certe vedutine a sepia che egli gli
tracciava come modelli sulla carta. Le vedutine del Bodojra e certi bozzetti di vecchi pittori
piemontesi, che il maestro teneva appesi alle pareti del suo studio, entusiasmarono il ragazzo,
il quale non aveva ormai più testa per altro che per quadri e disegni. Arrivava tardi a scuola
perchè restava incantato davanti ai negozi dove erano esposti quadri e stampe, ed era poi
giorno di festa straordinaria per lui quando riusciva a ficcarsi in un'esposizione. Così, a poco
per volta, cominciò a conoscere che cosa facessero gli artisti del suo tempo.

Proprio allora si manifestava in Piemonte un risveglio di attività artistica per virtù di
giovani decisi a romperla ad ogni costo con le tradizioni accademiche e desiderosi d'ispi-
rarsi direttamente alla natura, senza averla prima vagliata col setaccio delle convenzioni di
scuola e di stile.

Come aveva già fatto Massimo d'Azeglio, al quale penna e spada non avevano poi
lasciato tempo di raggiungere in tutto le vivaci aspirazioni pittoriche dell'età giovanile,
Francesco Gamba, e poi i suoi giovani amici Angelo Beccaria, Carlo Piacenza e Giuseppe
Camino, lavoravano gagliardamente a rinnovare la pittura di paese, che, riaccostata al vero,
cominciava a riprendere quella freschezza e spontaneità che per tanto tempo le era mancata.

Nel Beccaria e nel Camino rimaneva ancora qualche lieve traccia dell'antica scuola che
si manifestava in una certa preziosità della composizione e del disegno, ma Carlo Piacenza
seppe veramente accostarsi alla contemplazione delle bellezze naturali con quella semplicità
che l'uomo deve avere dinanzi agli spettacoli del creato. Egli capiva che non spettava all'ar-
tista di tormentare le grandi e semplici bellezze del vero, né stringendole fra i canoni del-
l'accademia, né piegandole a significazioni leziose e manierate, e si pose perciò dinanzi al
 
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