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L' arte: rivista di storia dell'arte medievale e moderna — 3.1900

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Fasc. 1-4
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Hermanin, Federico: Arte contemporanea, [1]: Filiberto Petiti
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https://doi.org/10.11588/diglit.24145#0149

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ii2 FEDERICO HERMANIN

uno di quei gineprai di entusiasmi e di scoramenti che hanno così spesso fatto perdere la
lena agii artisti più gagliardi.

A lui bastò di continuare nel genere prediletto. Il paesaggio triste e raccolto e come
dominato da un pensiero profondo era stato per lunghi anni l'ideale della sua arte, ed egli
non volle abbandonarlo.

Nei riflessi pallidi dell'Arno, che corre pigro fra le sponde erbose, rivide la pace dei
piccoli stagni campestri del suo Piemonte, e nei folti argentini degli albucci e delle betulle,
tremolanti sullo sfondo dei colli fiorentini, soavi sotto il tenue verde degli ulivi, ritrovò la
mite poesia dei filari di pioppi e delle folte chiome dei salici campagnoli.

Telemaco Signorini, l'Ussi, il Gordigiani e Niccolò Barabino presero ad amarlo. Sopra
tutti il Barabino veniva spesso a trovarlo, e lo incoraggiava a continuare ne' suoi lavori.

Ormai il pittore della domenica camminava sicuro ; e, come dice lo Stella,1 « quando il
prodotto di quel lavoro domenicale, condotto con la febbre e l'entusiasmo di chi ruba le ore
al riposo e agli svaghi per la conquista dell'ideale, fu conosciuto e apprezzato, quando in
quell' impiegato si rivelò il pittore, l'artista, la vocazione, lo studio e l'individualità, si finì
col chiamarlo il pittore di tutti i giorni: pittore nel senso nobile della parola, squisitamente
disposto a sentire e trasfondere nell'opera la poesia della forma e del colore ».

Anche a Roma, dov'era venuto nel 1874, rivivevano in lui le reminiscenze del pae-
saggio toscano e i ricordi piemontesi. La maestà maravigliosa della campagna romana lo
aveva scosso, ma non ancora vinto. Nel 1875 dipingeva ancora un quadro prettamente
toscano: un gomito dell'Arno.

Intanto egli sentiva di non poter più a lungo attendere, sentiva che doveva pur deci-
dersi al gran passo di lasciare l'impiego. Benché anche il fratello Enrico l'incuorasse, egli
dubitava; aveva famiglia, e non riusciva a scuotere da sè il vago timore dell'incerto.

Da parecchi anni a Roma s'era stretto di calda amicizia col pittore Vittorio Benisson,
che aveva già conosciuto a Torino. Il Benisson lo confortava a proseguire avanti ardito; e
quando, nel luglio del 1880, si sentì morire, volle al giovane artista, che lo aveva assistito
durante tutta la malattia, lasciare per ricordo ed incitamento i suoi arnesi dell'arte.

L'avvertimento valse, e in quello stesso mese il Petiti si dimise dall'impiego.

Ancora adesso potete vedere, appesi in luogo d'onore, nello studio del Petiti, la tavo-
lozza ed i pennelli del Benisson, che morendo gli aveva saputo dare il coraggio d'affrancarsi
e di dare finalmente il respiro della liberazione. Della vecchia vita, delle antiche angustie
non restò che il ricordo e quella sottile malinconia intima che l'accompagna per tutta la vita.

L'opera pittorica di Filiberto Petiti, che è lavoratore indefesso, è andata sempre cre-
scendo, e i quadri hanno seguito i quadri.

Egli non lascia intentata alcuna forma dell'arte pittorica, e fra una grande tela e l'altra
trova il tempo di tracciare acqueforti ed acquarelli di un genere tutto suo. In essi egli, per
mezzo di efficaci impasti di tinte, riesce ad ottenere effetti di luce veramente singolari, che
gli servono assai bene per que' suoi cieli temporaleschi e umidi.

Nei grandi quadri egli ha sempre conservata la vecchia maniera, ed è calato giù dal
Piemonte nella campagna romana con tutti i suoi ricordi di freddo e di grigio. Egli prefe-
risce la tristezza muta di un gelato mattino di novembre alla malinconia tragica di un tra-
monto sanguigno a mezza estate.

Nella sua Visita alla tenttta, esposta nel 1881 a Milano e comprata pel Museo civico
di quella città, è chiaramente espresso in qual modo il Petiti ami di rappresentare la cam-
pagna di Roma.

L'orizzonte è vicino e chiuso a pochi passi da chi guarda. Due cavalieri fermano i
cavalli all'ingresso della tenuta, e l'un d'essi, un buttero, si china ad aprire il pesante can-
cello della staccionata che corre lungo la macchia, dove s'alzano grandi alberi spogli.

1 A. Stella, Pittura e seni fura in Piemonte (1842-1891). Torino, Paravia, 1893.
 
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