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L' arte: rivista di storia dell'arte medievale e moderna — 26.1923

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M., C.: Giulio Cordero
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https://doi.org/10.11588/diglit.17343#0046

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24

C. M.

* * *

Non occorre fermarsi sul Regolamento introduttivo, quantunque interessante per
il limpido e fine senso critico rivelato da lo scrittore. Ecco pertanto l'ordine de le inda-
gini proposte secondo le esigenze del programma di concorso: i° se fosse rispondente al
vero la generale opinione intorno all'architettura dell'età longobarda; 2° se i barbari im-
portarono un modo di costruire, o pur no; 30 se siano rimaste fabbriche di quel tempo
abbastanza conservate.

Per il primo quesito l'esame è ristretto e la basilica di S. Michele Maggiore in Pavia.
Perchè citata da Paolo di Warnefrido e perchè non vi si riconosceva lo stile romano,
ma nè anche a pieno quello gotico, era ritenuta esemplare insigne de l'arte sotto i Lon-
gobardi. Ai quali andavano anche attribuiti, naturalmente, quanti edificii somigliassero
al pavese. Ma il Corderò, con la semplicità del buon senso, riflette, che derivare l'anti-
chità de le chiese solo da omonimia e da coincidenza di luoghi è un ragionare sbagliato.
Così toglie i puntelli sui quali malauguratamente reggevasi una critica raffazzonata
con spigolature storiche.

Egli, accusato di prevalente storicismo, abbandona a un certo punto le induzioni
care a l'antico metodo, e offre quasi il modello de l'esame critico da condursi su un mo-
numento.

Anzi tutto, come resultato di un'osservazione generale, riconosce la fabbrica per
opera di non informe carattere. Da non assegnarsi quindi al sec. vii. E trova inammis-
sibile una tradizione casaria longobarda. Non sfugge — è vero — a l'equivoco intorno
ai maestri Cummacini o Comacini. Ma non li innalza oltre il rango di capomaestri mu-
ratori, nega la corporazione, e una capacità artistica apprezzabile come tale.

La povertà brulla, che parve barbarie, dei secoli longobardi fu tutto quel che uo-
mini stremati di forze e di ricchezze, ai quali era invidiato ogni bene, poterono, per
tramandare un'eredità nobile con mani inesperte come di fanciulli; e fu la loro opera mi-
sera, ma sempre romana. È ciò che appar chiaro e indiscutibile al Corderò, dopo una
serie di notizie, d'argomenti e prove ragionevolmente usati. È il punto fermato a tutta
prima: base su cui s'impianta una larga indagine.

Infatti, proposta la fine del sec. xi per l'erezione del S. Michele, stabilite con certa
larghezza le vere epoche de l'arte, lo scrittore sembra dimenticare o metter da parte
il tema e la fabbrica scelta. Ma, è già stato avvertito, chiudere in un ambito ristretto
l'indagine valeva condannarla a fallire.

Seguono pertanto le disamine particolari de la prima e de la seconda maniera del
gotico-antico in Italia.

* * *

Nato ne le provincie orientali de l'impero romano e battezzato a Bisanzio, il Cor-
derò lo vede trapiantarsi la prima volta in Italia, quando si gettarono in suolo dalma-
tico le fondamenta del palazzo di Diocleziano. Il che non riscosse l'arte indigena; e
l'arco di Costantino documenta il triste appesantirsi, che fu ritorno a bambineggiare
barbaramente.

Dal ili al vi sec. lo scrittore afferma due correnti: la romana, e la bizantina, che
non soppiantò l'altra e, eccezion fatta di sporadiche affermazioni, non die' luogo a varietà
essenziali.

Ma un'idea limpida, non sorpassata, che schiarisce, insieme con il periodo de la mag-
gior decadenza, il più lontano albore di una nuova attività italica, è quella di un lento
ridestarsi dell'architettura presso di noi, già avanti il regno di Carlo Magno. Dopo la
morte del quale, Varchitettura per due secoli rimase stazionaria, e quasi senza chi la
 
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