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L' arte: rivista di storia dell'arte medievale e moderna — 2.1899

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Fasc. 11-12
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Bibliografia artistica
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BIBLIOGRAFIA ARTISTICA

indigeni, dei quali si conservano i nomi in alcuni do-
cumenti, ma le opere dei quali non si possono rico-
noscere. Giovanni de Buychello, Matteo de Perruchio,
Giacomo de Sabbato da Sciacca, Pino de Horis, Gio-
vanni Pullastra, Antonio di Buonsignoro, Guglielmo
Pronti e Gaspare da Pesaro, che, forse venuto da Pe-
saro, rimase poi sempre in Sicilia e fu maestro di
molti pittori.

Fin qui il volume del Di Marzo procede senza
infamia e senza lode, poiché molti già scrissero intorno
a questo periodo, e il Di Marzo si limita a compilare
il lavoro già fatto; ma nei capitoli successivi, ove
tratta dei singoli artisti, di cui nessuno finora ha par-
lato seriamente, egli si caccia in un ginepraio da cui
non è più capace di uscire.

Di Gaspare da Pesaro, di cui, come di tutti i pri-
mitivi siciliani poco o nulla si sa, non si conoscono le
opere. Però il Di Marzo gli attribuisce un trittico in
Santa Maria la Misericordia in Termini, datato del 1453
e di cui non si conosce l'autore, che però non do-
vette essere siciliano. Il primo passo è fatto. Con
questa base incerta il Di Marzo gli attribuisce poi
due sportelli di trittico (Palermo, Museo n. 78-80), un
trittico all'Ospedale civico, un altro trittico del Museo,
uno che è a Termini in casa Lo Faso, e alcuni af-
freschi nella chiesa del Carmine in Palermo.

Di Guglielmo, che fu figlio di Gaspare, e che fu
pure pittore, non si conoscono ugualmente le opere si-
cure, essendo solo nominato in alcuni contratti di opere
perdute: però, essendo padre di una monaca del mo-
nastero di Santa Caterina, il Di Marzo gli attribuisce
alcuni affreschi in detto monastero, e col confronto di
questi, un trittico del 1462 proveniente da Alcamo, ora
al Museo (n. 81), il quale ha poi a sua volta molta ana-
logia con una tavola nella chiesa madre di Alcamo,
e con un trittico del Museo di Palermo (n. 833^. Una
tavola nel Museo (n. 77) è di un'arte molto più de-
licata e più fina, e non ha nulla a che fare con lo
stile di Guglielmo, pure può attribuirsi a lui, che nel-
l'andar degli anni potè forse perfezionarsi (sic). E que-
ste sono conchiusioni, a cui giunge l'autore, benché
nella prefazione dichiari non volere avventar giudizi e
attribuzioni non troppo sicure.

Si era stabilita dunque in Sicilia un'arte indigena,
della quale uno dei primi rappresentanti fu il palermi-
tano Tommaso de Vigilia, che alcuni credono sia stato
discepolo di Antonio Crescenzio, mentre risulta che
costui non era ancora nato quando egli era già un
uomo fatto.

Il De Michele, parlando del trittico di Termini Ime-
rese, che il Di Marzo ascrive a Gaspare da Pesaro,
osservò dei caratteri simili nelle opere del De Vigilia,
e il Di Marzo mette fuori l'opinione che Gaspare da
Pesaro sia stato maestro del De Vigilia.

Poi, quantunque di quest'artista si conosca qualche
opera autentica, il Di Marzo comincia a parlare di

quelle che egli gli attribuisce senza spiegarne le ra-
gioni, senza confrontare gli stili diversi. Così gli at-
tribuisce l'affresco in San Domenico d'Alcamo, prima
di aver parlato delle opere autentiche, e si contenta
di osservare che una tavola dipinta nel 1466 a Palermo,
non potè essere dipinta da Mario da Laurito, il quale
fu a Palermo solo nel 1503; e con questo ragiona-
mento l'attribuisce al De Vigilia.

Dopo aver parlato di altre opere che rassomigliano
a quelle attribuite al De Vigilia, nota che non bisogna
andare a tentoni come ciechi, non inoltrarsi nel campo
di nude induzioni, e comincia a parlare di quelle opere
che crede possano essere autentiche. E cioè di un pen-
tittico di proprietà Tasca, d'una tavola di proprietà
Santo Canale, delle pitture in San Nicolò di San Fran-
cesco a Palermo, basandosi sopra la notizia che cioè
sedici anni dopo vi dipinse una tavola!

Discorre finalmente delle opere firmate, comin-
ciando da quelle distrutte e da quelle rovinate, e
anche fa certe osservazioni come quella che se una
pittura fosse stata dipinta bene, sarebbe stata una
grande opera.

E non volendo abbandonare le sue induzioni, il
Di Marzo nota che gli affreschi di Risalaimi furono
fatti dal De Vigilia in unione ad altri artisti, e si do-
manda : perchè non potrebbero essere i due figli
de Pesaro?

Nel capitolo III, parlando di Antonello Crescenzio,
il Di Marzo comincia col « dar di frego a parecchie
pagine » cosi egli scrive, « del terzo volume della
giovanile opera Delle belle arti in Sicilia, edita in
Palermo nel 1862, dove, affatto privo di documenti
del tempo, non potei che ripetere quanto di lui si era
detto dinanzi, quasi jurando in verbo dei precedenti
scrittori. Contro le erronee asserzioni di costoro, ma-
turato dagli anni e sorretto in alcune parti da prove
sincrone, dò adesso di piglio al piccone della critica
e, pur facendo ammenda dell'antica mia buona fede,
comincio a dar salde basi alla biografia di quel nostro
mal noto pittore ».

Qua e là nel- volume si rivela studio cosciente, come
fieli' analisi minuta del fiammingo Trionfo della morte,
che fu compito da un ignoto tedesco insieme con
Riccardo Quartararo. Ma il Di Marzo, riguardo a que-
st'artista, si sbaglia di grosso nell'attribuirgli i Santi
Pietro e Paolo nel Museo di Palermo, i Santi Gio-
vanni e Giacomo nel palazzo Torremuzza, la Santa
Cecilia nel duomo e il San Bernardino da Siena in
Santa Maria di Gesù, le quali opere rivelano non solo
una mano diversa, ma pure una diversa scuola : la
Santa Cecilia ad esempio, sembra a'molti una pittura
indubbiamente emiliana.

Eppure il Di Marzo avrebbe potuto darci un'opera
buona, e avrebbe potuto con questa iniziare o risve-
gliare gli studi artistici in Sicilia. Egli avrebbe potuto
farlo per la grande conoscenza che ha dell'isola e per
 
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