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L' arte: rivista di storia dell'arte medievale e moderna — 5.1902

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Fasc. 1
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Miscellanea
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https://doi.org/10.11588/diglit.24147#0093

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MISCELLANEA

55

della storia locale, il giudizio del ricordato avv. Tro-
vanelli, il quale così appunto si esprimeva nel gior-
nale cesenate II Cittadino, del 22 dicembre u. s. :
« A noi sembra anzitutto ovvio, che in quel punto
centrale del quadro il pittore, che per incarico d’un
principe di casa Malatesta eseguiva quelle pitture,
abbia voluto porvi qualche cosa di allusivo e di glo-
rificazione per la detta Casa. È noto che dei tre fratelli
Malatesta (Andrea, Pandolfo e Carlo, morti rispetti-
vamente nel 1417, 1427 e 1430), nessuno lasciò figli
maschi legittimi, e che la loro stirpe si sarebbe estinta
e la signoria di Rimini e di Cesena, come vicariati
papali cessata, se Carlo, che aveva presso Martino V
grandi benemerenze, avendo concorso a procurargli
una maggiore sicurezza nel seggio pontificio con la ri-
nuncia che Gregorio XII, a sua persuasione, inviò da
Rimini al Concilio di Costanza, non avesse ottenuto dal
papa Colonnese che venissero legittimati tre figli spurii
di Pandolfo, e cioè Roberto, Sigismondo e Domenico,
il quale ultimo fu poi il nostro Malatesta Novello,
tanto benemerito del nostro paese. Ecco dunque che
la casa Malatesta, per quella legittimazione, risorgeva,
può dirsi dal sepolcro. Non è poi affatto strano che
il pittore abbia voluto rappresentare il papa in atto
di pregare il Cielo perchè la risurrezione avvenisse, o,
se vuoisi, in atto di genuflettersi a Dio, riconoscendo
essere quella risurrezione il voler suo.

« Per tal modo il principe che balza su dall’avello
non è questo o quel personaggio della famiglia Ma-
latestiana, ma la famiglia medesima simbolicamente
raffigurata. La mano in alto rappresenta la volontà
divina; e l’angelo la celeste protezione»1.

A destra della rappresentazione su descritta si am-
mira un altro quadro con diverse figure di frati: un
d’essi reca al convento il raccolto della questua; in
mezzo della scena, fra molti suoi confratelli, sta un
santo monaco, con l’aureola, reggente uno scrigno
su cui è scritto Charitas, a significare, come osserva
il Trovanelli, che l’elemosina è la ricchezza della po-
vera vita, dei seguaci di San Francesco.

Nell’altro quadro vedesi, dietro un tavolo, un guer-
riero, che sembra morente, seduto e sorretto da due

1 « Certamente il papa, avverte ancora il T., si genuflette a
Dio, e non al principe ; ma pure quel massimo sacerdote inginoc-
chiato a quel principe in piedi dinanzi a lui, quella mano divina,
la quale pare indicare che la perpetrazione della signoria Malate-
stiana non deriva da graziosa concessione pontificia, ma da una
autorità superiore a papi ed a re, ci fanno pensare alle lotte che,
anche sotto i nostri Malatesta (per Cesena ottimi e civili reggi-
tori), sostenne la sovranità laica contro l’ecclesiastica, e di cui
sono tracce nelle irose ed ingiuste maledizioni di papa Pio II,
l’umanista gaudente divenuto papa intollerante, contro Sigismondo
di Rimini e Malatesta Novello di Cesena. Certamente, dopo il 1465,
quando, morto l’ultimo nostro principe, la signoria pontificia si
piantò plumbea e snervante sul nostro paese, non si sarebbe di-
pinta una tale allegoria. E se essa non fu cancellata subito, fu per
quello spirito di ribellione che, come aleggiava sotto la tonaca di
Savonarola, riparava all’ombra dei conventi francescani •.

monaci. Come il quadro di destra rappresenta la carità
che i fedeli fanno al convento, così questo potrebbe
rappresentare la carità che il convento restituisce ai
fedeli che ad esso ricorrono. Giovi notare però che
il foglio di carta che sta sul tavolo ed il calamaio lì
pronto con la penna non escludono che si sia voluto
invece indicare un atto d’ultima liberalità di qualche
condottiero, o di qualche principe, in favore dell’or-
dine francescano.

Le due pitture sin qui descritte occupano la parte
superiore dell’arcata. Nell’ampio rettangolo in basso,
chiuso anch’esso da apposita cornice, è dipinta con
figure grandi circa due terzi del vero, l’Ultima Cena,
li momento è solenne. Quasi tutti gli apostoli stanno
in piedi, discorrendo sommessamente fra di loro,
mentre Gesù comunica uno di essi, che si vede ingi-
nocchiato al di qua della mensa. Solo San Giovanni,
chino sul tavolo, dorme vicino al Cristo, con il capo
appoggiato sulle mani.

Le pitture palesano le caratteristiche del Quattro-
cento, massime per la parte decorativa costituita da
ben appropriate cornici e da semplici festoni di foglie
che corrono intorno alle arcate e fra le cornici che di-
vidono le varie composizioni.

La parte superiore del dipinto, con figure assai
più piccole del vero, sembrano migliori o almeno più
accuratamente segnate di quelle che vediamo nella
Cena. Il disegno alquanto sommario e scorretto nelle
estremità specialmente, è compensato dalla bontà del-
1’ insieme e da una certa nobiltà nella composizione.

Peccato che la scena grandiosa con la Crocifissione,
nell’arcata di sinistra, sia stata spezzata e guasta
per una finestra praticatavi or sono molti anni e per
la quale gran parte del dipinto si è inesorabilmente
perduto. In questa più che nelle scene dell’arcata
vicina si nota una certa forza caratteristica, un grande
movimento di figure, d’uomini e di cavalli, ridotte
purtroppo quasi tutte in condizioni deplorevoli.

Nella Crocifissione, meglio che nelle scene allego-
riche, si sarebbero potuti rilevare, io penso, i caratteri
del maestro, anche perchè in essa egli aveva dovuto
tener conto di molti elementi di cui ben poco o nulla
noi vediamo nelle altre composizioni sue, come il
paese, il cielo, il costume dei personaggi diversi, le
foggie dei soldati, il tipo e le forme dei cavalli, che
in questa grandiosa scena vediamo accennati in buon
numero ed in proporzioni di circa due terzi del vero.

Perchè gli affreschi furono eseguiti ad un sol colore
e precisamente con terretta verde lumeggiata di biacca,
taluno fu indotto a ricordare, ma senza arrischiare
supposizioni di sorta, che Paolo Uccello, il quale,
stando al Vasari, non fu ignoto ai Malatesta, preferì
in modo speciale tale sistema di pitture ; ma io credo
non sia il caso di menzionare il nome dell’insigne
maestro fiorentino, il cui pennello nelle rozze pitture
qui sopra descritte va escluso in modo assoluto. Ma
 
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