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L' arte: rivista di storia dell'arte medievale e moderna — 23.1920

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Fasc. 3
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Tea, Eva: Il ritratto di Pace Guarienti attribuito a Paolo Veronese
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https://doi.org/10.11588/diglit.17340#0222

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19(1

EVA TEA

di Mardocheo il giallo ed il rosso si mescolano con il violetto, e tutti insieme compongono
nella retina un focoso bigio».

Orbene, i due guerrieri di queste scene della storia d'Ester, fratelli spavaldi del S. Menna
di Modena, sarebbero coetanei del probo Pace Guarienti, dipinto senza dubbio a
Verona nello stesso anno 1556; anzi, primigeniti, se le date della storia non errano.

Dicono i biografi che Paolo menasse in quel tempo vita randagia, onde aver buon
giuoco per farlo tornare da Venezia in patria, dove cominciava ad arridergli la grazia di
una bimba quattordicenne, figliuola di maestro Badile.

È vero che l'anagrafe del 1555 lo ricorda ancora in famiglia, nella contrada
di S. Paolo; ma in realtà egli tiene bottega da due anni in corte della Candela a Ve-
nezia, presso Vincenzo Zeno. Forse la morte del padre, avvenuta fra il T553 e il 1555, aveva
rotto gli ultimi legami con la patria; e di fatto nel posteriore documento, in cui ha il so-
prannome di Bazaro, anche la madre e il fratello appaiono trasferiti a Venezia.

Nel gennaio del 1556 il Caliari attende al soffitto di S. Sebastiano, per cui riceve un
primo acconto, conforme al contratto dell'anno innanzi. I pagamenti si susseguono fino
al 31 ottobre, alternati con quelli per il soffitto nella sala del Consiglio dei dieci. Nel
bimestre novembre-dicembre conduce forse a termine la pala di Montagnana, che aveva
promesso di portare personalmente in sede, per la solennità del Natale. E questa potè es-
sere la prima ed unica occasione per lui di rivedere la patria, in quell'anno sì glorioso ed
affaccendato. Se così avvenne, il ritratto Guarienti avrebbe seguito in ordine di mesi i
pannelli della Storia d'Ester, cosa davvero maravigliosa.

Guardando il capolavoro del Museo veronese dopo la visione vicina dei pannelli di S. Se-
bastiano, ho l'impressione di accostare un altro temperamento pittorico. Invece dei tocchi
fioccati, che sulle velature proponenti la forma mettono gli indispensabili lumi, vedo un im-
pasto morbido e sanguigno; invece degli arditi piramidali incuneamenti, una posa stazio-
nale, lievemente aggirata, che tradisce l'abitudine d'impostare figure di santi intorno
al fulcro centrale delle ancone. Lo scorcio non è voluministico, ma corsivo e disegnativo:
nessuna velleità cromatica nella trattazione magistrale della corazza, corsa da piccoli
piumati lumi bianchi sopra monotono bigio. Il fondo neutro non ha riscontri in Paolo.

Il contrasto fu notato anche dal Taine, che nel ritratto del Guarienti vide « un moment
finale, quand la fogue et l'énergie primitive commencent à se tempérer au soufflé de l'ai-
sance et de la dignité mondaine ». Forse non aveva notato la segnatura del 1550: in
verità, non si tratta di una stasi finale, ma di un regresso nello sviluppo.

Si obietterà che il dipinto di S. Sebastiano è una gran macchina da vedersi a distanza,
mentre il ritratto esige veduta vicina. Osservo che i modi spiegati nei pannelli d'Ester
non sono soltanto spedienti scenici o apparecchi d'illusione lontana, ma esprimono una
visione fantastica dipendente dallo spirito dell'artista, non dalla posizione dello spet-
tatore. Tant'è vero che tutta la posteriore arte di Paolo è un'evoluzione o involuzione
da quei modi: e, involvendosi, non ritorna alla rude semplicità del Guarienti, ma riesce
alle lisciature di Benedetto o di Carlo.

Ritenni un tempo — e, purtroppo, scrissi — che quella natura tumultuosa nelle
creazioni fantastiche si ripiegasse su di sè, quasi timida, dinanzi al vero. Eh via! Il
talento mnemonico poteva dispensarla dal modello — come affermano il Ridolfi e il
Maffei — non mai condurla alla vericità scrupolosa e leggermente ironica del ritratto
Guarienti. E poi, dov'è la timidità nel quadro di Daniele Barbaro? Dove nella Cena di
S. Gregorio a Monte Berico, i cui personaggi secondari sono autentici ritratti?

Quella spiegazione era necessaria per mantenere al Guarienti un posto nella serie delle
opere di Paolo; ma, capziosa e leggera, anzi che chiarire i dubbi, l'intrica. Il buon gusto
del lettore mi salvi dalla facile sfortuna d'essere fraintesa; ciò ch'io vedo nel Guarienti non
è un'arte inferiore, ma sì diversa da quella del Caliari di S. Sebastiano; degna di lui come
un Bellini tardo può accostare un Tiziano giovine, ma d'altra essenza e non confondibile.
 
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