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SERGIO ORTOLANI
Fuor di tanto non gli restano che infinite distinzioni qualitative, ed in queste è l'oggetto
della critica d'arte.
Quanto s'è detto circa le varie posizioni di tale generale conquista pittorica del reale
va dunque connesso a tutto il movimento dello spirito dal trecento ad oggi: ognuna coin-
cide con un momento di questo ed è in tali termini completa, nel tempo stesso che cia-
scuna, nella sintesi del nostro pensiero, risulta dalla fusione di quelli elementi in cui
concordano i pittori dell'epoca, pur distinguendosene costoro secondo personalità e ac-
centuazioni minori, che però — ed esse soltanto — li fanno artisti. Nè ciò esclude che,
benché raro, possa esservi pittore, e artista, che s'ispiri ad una realtà già oltrepassata
(l'Angelico ad es. rispetto a Paolo Uccello). E ciò conferma ancóra una volta — se ve
n'era bisogno — che la nostra ricerca, interessante per sè, non tocca che ben poco del-
l'Arte, rimanendo una storia culturale, quale voleva essere fin dall'inizio.
Riprendiamo dunque la « posizione » di partenza, quando imprendemmo questo
succinto schema dal linguaggio pittorico secondo l'elemento: colore.
Si diceva che il tono è implicito in ogni pittura che non prescinda da quell'elemento.
Sarebbe agevole, se pur lungo, infatti ricercare quanto il tono operi nella stessa pittura
classica recentemente rivelataci (vedi i ritratti di El Fayum), come in quella divina Po-
linnia, eucausto su lavagna, del museo di Cortona, che vorrei credere non ignota a certi
veneziani del cinquecento (questa o simile cosa). Nè meno facile è dimostrare come sia
presente nelle più scaltrite decorazioni orientali e bizantine, dove il diaspro e l'alluc-
ciolio delle tessere viene realmente intonato al fondo dell'oro (v. in S. Prassede e in
S. M. in Domnica). Certo nulla è nuovo sotto il sole! E certo è che la semplice realtà
cromatica, che nel trecento poneva come proprio all'oggetto il colore locale in quanto
suo generico (specie nei Senesi) — derivando dalla tradizione bizantina gran parte delle
sue formule fisse secondo una precettistica spesso delle più ingenue, ove il simbolo iera-
tico aveva gran parte, poiché quella tradizione s'era immobilizzata nel nostro tardo
Medio Evo lontana dalle reali originalissime conquiste orientali — non poteva non con-
servare tuttavia sia pure uno spento ricordo di quelle, pronto a ravvivarsi sotto l'occhio
d'un novello colorista. Lo stesso per il tre e quattrocento veneziano. Così non meno
agevole sarebbe enumerare le squisitezze degli accordi di Duccio o d'altro « primitivo »,
come quelle dei Lorenzetti e come, tanto per esemplificare, quelle del Beato Angelico,
nella Predella della celebre ancona di S. Domenico a Cortona, (la quale come ben vide
il Maestro nostro, al solo confronto con l'altra della Annunziata del Gesù si rivela opera
non già del 1418 ma assai matura e più tarda della seconda ch'è memore ancóra di do-
rature trecentesche e di squilibri cromatici di puro effetto miniaturistico e decorativo).
Basta davvero osservare con che minimo gradar di rossi spostino certi personaggi nella
scena centrale, o come la figurina della assistente addossata alla porta moduli il suo ver-
miglio secondo l'atmosfera azzurra dell'ambiente, o anche come le vòlte oltremare del
chiostrino, stellate d'oro, scartino presso il cielo, per riconoscere che la parola tono, se
ignota al grande fraticello, non è troppo straniera a certa sua pittura più eletta. Ma qui
siamo già verso il quarto decennio del quattrocento. Quello ch'è da osservare prelimi-
narmente, è che, se la tradizione romanica portò la nostra pittura delle origini a preoc-
cuparsi delle sole tinte locali, identificandole, entro il contorno, con i piani superficiali
della forma — vi prepotesse o meno il chiaroscuro disegnativo — ciò non vuol dire
che nel quadro esse non trovassero spesso una reciprocità di modulazioni che le legava
sia pure con il nesso tutto elementare dei « complementari ».
A che era dovuto questo accordo? Risolvere tale problema significa finalmente ri-
conoscere ai toscani, in contrasto con la tradizione critica comune, un mondo cromatico
particolare. Ecco. Come in essi vedemmo propria alla forma la tendenza a costruirsi per
piani, originariamente superficiali, poi sfaccettati nella scatola tramata di nervi tesi della
prospettiva lineare, per lasciare alla « cifra » del chiaroscuro disegnativo tutto il compito
SERGIO ORTOLANI
Fuor di tanto non gli restano che infinite distinzioni qualitative, ed in queste è l'oggetto
della critica d'arte.
Quanto s'è detto circa le varie posizioni di tale generale conquista pittorica del reale
va dunque connesso a tutto il movimento dello spirito dal trecento ad oggi: ognuna coin-
cide con un momento di questo ed è in tali termini completa, nel tempo stesso che cia-
scuna, nella sintesi del nostro pensiero, risulta dalla fusione di quelli elementi in cui
concordano i pittori dell'epoca, pur distinguendosene costoro secondo personalità e ac-
centuazioni minori, che però — ed esse soltanto — li fanno artisti. Nè ciò esclude che,
benché raro, possa esservi pittore, e artista, che s'ispiri ad una realtà già oltrepassata
(l'Angelico ad es. rispetto a Paolo Uccello). E ciò conferma ancóra una volta — se ve
n'era bisogno — che la nostra ricerca, interessante per sè, non tocca che ben poco del-
l'Arte, rimanendo una storia culturale, quale voleva essere fin dall'inizio.
Riprendiamo dunque la « posizione » di partenza, quando imprendemmo questo
succinto schema dal linguaggio pittorico secondo l'elemento: colore.
Si diceva che il tono è implicito in ogni pittura che non prescinda da quell'elemento.
Sarebbe agevole, se pur lungo, infatti ricercare quanto il tono operi nella stessa pittura
classica recentemente rivelataci (vedi i ritratti di El Fayum), come in quella divina Po-
linnia, eucausto su lavagna, del museo di Cortona, che vorrei credere non ignota a certi
veneziani del cinquecento (questa o simile cosa). Nè meno facile è dimostrare come sia
presente nelle più scaltrite decorazioni orientali e bizantine, dove il diaspro e l'alluc-
ciolio delle tessere viene realmente intonato al fondo dell'oro (v. in S. Prassede e in
S. M. in Domnica). Certo nulla è nuovo sotto il sole! E certo è che la semplice realtà
cromatica, che nel trecento poneva come proprio all'oggetto il colore locale in quanto
suo generico (specie nei Senesi) — derivando dalla tradizione bizantina gran parte delle
sue formule fisse secondo una precettistica spesso delle più ingenue, ove il simbolo iera-
tico aveva gran parte, poiché quella tradizione s'era immobilizzata nel nostro tardo
Medio Evo lontana dalle reali originalissime conquiste orientali — non poteva non con-
servare tuttavia sia pure uno spento ricordo di quelle, pronto a ravvivarsi sotto l'occhio
d'un novello colorista. Lo stesso per il tre e quattrocento veneziano. Così non meno
agevole sarebbe enumerare le squisitezze degli accordi di Duccio o d'altro « primitivo »,
come quelle dei Lorenzetti e come, tanto per esemplificare, quelle del Beato Angelico,
nella Predella della celebre ancona di S. Domenico a Cortona, (la quale come ben vide
il Maestro nostro, al solo confronto con l'altra della Annunziata del Gesù si rivela opera
non già del 1418 ma assai matura e più tarda della seconda ch'è memore ancóra di do-
rature trecentesche e di squilibri cromatici di puro effetto miniaturistico e decorativo).
Basta davvero osservare con che minimo gradar di rossi spostino certi personaggi nella
scena centrale, o come la figurina della assistente addossata alla porta moduli il suo ver-
miglio secondo l'atmosfera azzurra dell'ambiente, o anche come le vòlte oltremare del
chiostrino, stellate d'oro, scartino presso il cielo, per riconoscere che la parola tono, se
ignota al grande fraticello, non è troppo straniera a certa sua pittura più eletta. Ma qui
siamo già verso il quarto decennio del quattrocento. Quello ch'è da osservare prelimi-
narmente, è che, se la tradizione romanica portò la nostra pittura delle origini a preoc-
cuparsi delle sole tinte locali, identificandole, entro il contorno, con i piani superficiali
della forma — vi prepotesse o meno il chiaroscuro disegnativo — ciò non vuol dire
che nel quadro esse non trovassero spesso una reciprocità di modulazioni che le legava
sia pure con il nesso tutto elementare dei « complementari ».
A che era dovuto questo accordo? Risolvere tale problema significa finalmente ri-
conoscere ai toscani, in contrasto con la tradizione critica comune, un mondo cromatico
particolare. Ecco. Come in essi vedemmo propria alla forma la tendenza a costruirsi per
piani, originariamente superficiali, poi sfaccettati nella scatola tramata di nervi tesi della
prospettiva lineare, per lasciare alla « cifra » del chiaroscuro disegnativo tutto il compito