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SERGIO ORTOLANI
Questo bisogno di fissare il moto, non quale raggiungimento e riposo, ma quale
punto di continuo trapasso, ci mostra coma la comunale sensualitì accalorita e fastosa
si trasformi in un panismo orgiastico ed energetico, momento di uno spirito ch'è fatto
polo del congiungersi e dirimersi d'un infinito scattare di vibrazioni, quasi a celebra-
zione sentimentale di quella « natura cosmica » che gli scienziati si preparavano a creare,
roteante, fluida, qua e là concreta in nuclei globosi bilanciati intorno al gran bollore ge-
netico del sole. Questo ci dicono il Cristo coronato di spine ch'è a Monaco, il S. Seba-
stiano di Pietroburgo, la Pietà di Venezia. Qui a poco a poco la massa-colore, tutta rotta
e sbattuta e come bionda della combustione passata, si appropria intera la sorgente
luminosa e vi unifica ogni tono riducendo la gioia pittorica in un dramma bicromo:
l'opporsi delle masse d'ombra contro la « massa-luce ».
La storia pittorica di Tiziano è quella del suo secolo e della sua lingua. Due soli
vivono a lato: uno solo prosegue.
Veronese e Tintoretto i primi, Jacopo Bassano l'ultimo. Paolo vive fuori d'ogni
dramma: la sua è una fanfara di trombe d'argento, celebratrice di sfarzo, in un teatro
dove il mondo d'un costumier d'opera-ballo è campato per miracolo di scorci vertiginosi
contro il mattino universale del cielo. Vòlta a vòlta anch'egli imiterà gli arrotondimenti
sfumati, lo stanziarsi soffice dell'ombra nei vuoti della composizione, qualche obliquo
tintorettesco baleno, e specialmente la polifonia delle materie care a Tiziano, ma più
mosse e schiarite, con un senso di « pasta » rasciutta e voluminosa che ritroveremo nel
Bassano; ma solo nei grandi Arazzi di soffitto e in qualche pala (S. Caterina all'Acc. di
Venezia) troverà il suo bel canto. Nulla di falso in questa espanta illuminazione: i
timbri del sole vi squillano puri. E nessun peso in tanto carico d'ori e di velluti e di
colonne e di cavalli erti fra i grappoli delle bionde iddie, signore d'un popolo di turchi
scalchi e palafrenieri, servite dai nani e dai mori, amate dai {tossenti, e barbuti « avo-
gadori » or ora usciti fuori dai ritratti del Tintoretto. La Mitologia Veneziana più sun-
tuosa e carnale qui vive in conviviali società, con una rumorosità tutta popolare.
E chiari su chiari, argenti contro azzurri, grigi contro il verde e il latte degli oriz-
zonti, polpa di carni a pena saporose sulle sciarpe seriche dei fondi, squilli d'oro bianco
sgranati sul cremisino dei broccatelli dominano le plaghe fulve e lo sciorinarsi dei vel-
luti. Qui il gioco tonale, nella sicurezza infallibile del pennello, non si crea un fittizio
opporsi di masse e di valori, ma gioca dentro la più diffusa luce. Il rapporto più leg-
gero è colto con tale esatta misura che da « tocco » a tocco l'aria arretra o cresce e
fra la verginità delle « couches » di pasta colorita la forma si modula intatta, quasi che,
mirandola nel quadro, ogni velo atmosferico frapposto fra noi e quella fosse caduto
e tutta la ricevessimo nella sua essenziale nudità. Questa « veduta a fior degli occhi »
opposta al lontanissimo arazzo dei fondali o alla convessità lapidea del cielo, crea quella
favolosa presenza e direi quasi imminenza della forma veronesiana. Il pittore che così
ci ha preso, pòste le masse centrali, non si trita nel gioco degli opposti; qua e là, ove i
toni si bevono l'un l'altro, il suo pennello accenta, contorna, rileva: egli disegna dove
non concreta. E in questo scenografico arabesco cresce l'affresco di Giambattista Tie-
polo; nasce il soffitto roseo-cerulo del Settecento.
Ma, dove (Pala di S. Zaccaria all'Accad. di Venezia) la vicinanza dell'opera all'am-
miratore impone la finita fattura, ogni faccia del poliedro cromatico è un tono, ogni
tono è una pennellata franca e succosa, ogni pennellata è una tinta « vergine » (Zanetti),
un tocco ardito e saporoso. E dove l'uniformità dei chiari gioca con un accostamento
insensibile di mezze tinte, lì il pennello « scrive » le sue « sprezzature », appoggia e « ri-
scalda », scivola e conduce il più superficiale lume. Nessuna velatura ammorza questo
allucciolìo di gemme, questo opporsi energico e sinuoso di tocchi puri, ove si prepara
l'arte magnifica di Vermeer van Delft e la sola ricchezza di Cezanne.
La realtà del Caliari in questa favolosa « opera » riposa. Nessuno slancio dello
SERGIO ORTOLANI
Questo bisogno di fissare il moto, non quale raggiungimento e riposo, ma quale
punto di continuo trapasso, ci mostra coma la comunale sensualitì accalorita e fastosa
si trasformi in un panismo orgiastico ed energetico, momento di uno spirito ch'è fatto
polo del congiungersi e dirimersi d'un infinito scattare di vibrazioni, quasi a celebra-
zione sentimentale di quella « natura cosmica » che gli scienziati si preparavano a creare,
roteante, fluida, qua e là concreta in nuclei globosi bilanciati intorno al gran bollore ge-
netico del sole. Questo ci dicono il Cristo coronato di spine ch'è a Monaco, il S. Seba-
stiano di Pietroburgo, la Pietà di Venezia. Qui a poco a poco la massa-colore, tutta rotta
e sbattuta e come bionda della combustione passata, si appropria intera la sorgente
luminosa e vi unifica ogni tono riducendo la gioia pittorica in un dramma bicromo:
l'opporsi delle masse d'ombra contro la « massa-luce ».
La storia pittorica di Tiziano è quella del suo secolo e della sua lingua. Due soli
vivono a lato: uno solo prosegue.
Veronese e Tintoretto i primi, Jacopo Bassano l'ultimo. Paolo vive fuori d'ogni
dramma: la sua è una fanfara di trombe d'argento, celebratrice di sfarzo, in un teatro
dove il mondo d'un costumier d'opera-ballo è campato per miracolo di scorci vertiginosi
contro il mattino universale del cielo. Vòlta a vòlta anch'egli imiterà gli arrotondimenti
sfumati, lo stanziarsi soffice dell'ombra nei vuoti della composizione, qualche obliquo
tintorettesco baleno, e specialmente la polifonia delle materie care a Tiziano, ma più
mosse e schiarite, con un senso di « pasta » rasciutta e voluminosa che ritroveremo nel
Bassano; ma solo nei grandi Arazzi di soffitto e in qualche pala (S. Caterina all'Acc. di
Venezia) troverà il suo bel canto. Nulla di falso in questa espanta illuminazione: i
timbri del sole vi squillano puri. E nessun peso in tanto carico d'ori e di velluti e di
colonne e di cavalli erti fra i grappoli delle bionde iddie, signore d'un popolo di turchi
scalchi e palafrenieri, servite dai nani e dai mori, amate dai {tossenti, e barbuti « avo-
gadori » or ora usciti fuori dai ritratti del Tintoretto. La Mitologia Veneziana più sun-
tuosa e carnale qui vive in conviviali società, con una rumorosità tutta popolare.
E chiari su chiari, argenti contro azzurri, grigi contro il verde e il latte degli oriz-
zonti, polpa di carni a pena saporose sulle sciarpe seriche dei fondi, squilli d'oro bianco
sgranati sul cremisino dei broccatelli dominano le plaghe fulve e lo sciorinarsi dei vel-
luti. Qui il gioco tonale, nella sicurezza infallibile del pennello, non si crea un fittizio
opporsi di masse e di valori, ma gioca dentro la più diffusa luce. Il rapporto più leg-
gero è colto con tale esatta misura che da « tocco » a tocco l'aria arretra o cresce e
fra la verginità delle « couches » di pasta colorita la forma si modula intatta, quasi che,
mirandola nel quadro, ogni velo atmosferico frapposto fra noi e quella fosse caduto
e tutta la ricevessimo nella sua essenziale nudità. Questa « veduta a fior degli occhi »
opposta al lontanissimo arazzo dei fondali o alla convessità lapidea del cielo, crea quella
favolosa presenza e direi quasi imminenza della forma veronesiana. Il pittore che così
ci ha preso, pòste le masse centrali, non si trita nel gioco degli opposti; qua e là, ove i
toni si bevono l'un l'altro, il suo pennello accenta, contorna, rileva: egli disegna dove
non concreta. E in questo scenografico arabesco cresce l'affresco di Giambattista Tie-
polo; nasce il soffitto roseo-cerulo del Settecento.
Ma, dove (Pala di S. Zaccaria all'Accad. di Venezia) la vicinanza dell'opera all'am-
miratore impone la finita fattura, ogni faccia del poliedro cromatico è un tono, ogni
tono è una pennellata franca e succosa, ogni pennellata è una tinta « vergine » (Zanetti),
un tocco ardito e saporoso. E dove l'uniformità dei chiari gioca con un accostamento
insensibile di mezze tinte, lì il pennello « scrive » le sue « sprezzature », appoggia e « ri-
scalda », scivola e conduce il più superficiale lume. Nessuna velatura ammorza questo
allucciolìo di gemme, questo opporsi energico e sinuoso di tocchi puri, ove si prepara
l'arte magnifica di Vermeer van Delft e la sola ricchezza di Cezanne.
La realtà del Caliari in questa favolosa « opera » riposa. Nessuno slancio dello