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SERGIO ORTOLA.XI
peto e di volume. A tal punto il mondo tosco-romano, dopo avere in nome di Michelangelo
combattuto Tiziano, s'arresta sgomento e senza comprendere davanti a Tintoretto e rea-
gisce finalmente non solo contro la « visione veneta » ma contro tutta la nuova realtà che in
quella pungeva sottintesa, poiché l'espandersi e rivelarsi di questa nell'Europa settentrio-
nale e in Italia stessa la costringe a correre ai ripari. Siamo alla Controriforma.
Siamo al punto in cui le più libere forze della seconda vita italiana — Bruno, Tinto-
retto, Campanella, Caravaggio e i musici fiorentini col Monteverde — tentano primi di
conciliare e unificare i due mondi, mentre la tradizione tosco-romana, minacciata di morte,
taglia corto su tali tentativi e si rifà tutta, come in un agguerrito bastione, nella integrità
dei suoi dogmi e della sua pratica sapienza. I pedanti hanno vinto i nuovi filosofi. Vene-
tismo e manierismo vengono a patti.
Il Ranke, da buon romantico, c'è testimone d'una verità purtroppo comunale ormai e,
come tutte le sintesi, alquanto sommaria: — « Da un lato il mondo cattolico era concorde,
classico e monarchico; dall'altro il mondo protestante era diviso, romantico e republi-
cano ». Siamo verso il 1620. I cattolici trionfano: le missioni corrono il mondo: la Chiesa
celebra con l'arte barocca le sue vittorie. Con più largo senso storico possiamo dire che,
ai popoli dove la civiltà nuova s'era subitamente accesa con la grande fiamma di Lutero,
rendendo voce ribelle a Roma, s'impose, nel nome di Roma, un limite e una prova nella
rinnovata vitalità del mondo tosco-romano; e il romanticismo del Nord dovette non solo
fare i conti con la tradizione umanistica, dalla cui norma s'era con tanta violenza stra-
niato, ma della universale presenza cattolica e ricomperarsi una vita attraverso la secolare
esperienza di questa. Ciò spiega perchè ad un primo vittorioso fiorire delle arti e dello spi-
rito nuovo, nella seconda metà del cinquecento e negli inizi del seicento, segua, più costretto
in Venezia e nell'Italia meridionale, meno evidente nell'Europa del Nord, sebbene altret-
tanto reale, un secondo periodo d'assorbimento della nostra civiltà (sia pure alcuna volta
mediata la Francia), ricavandone proprio quella normativa e retorica classica nella quale
il gotismo aveva perduto e dimenticato la propria durante la fine del quattrocento, senza
per altro — nella breve consuetudine — averne acquistato in cambio la nostra ricchezza.
Ciò spiega infine cosa fosse tuttavia, fino ad Antonio Canova, l'Italia nel mondo, mal-
grado quella che a noi appare povertà e sventura dell'arte nostra durante il sei e settecento:
la vera maestra di stile, la terra in cui le più dolorose esperienze del nuovo conflitto più
coraggiosamente s'imprendevano e trovavano pur sempre — nel campo dell'arte — la riso-
luzione più umana e universale, ovverosia più popolare. Ma prima di esemplificare, vediamo
come si presenta, di fronte alla condizione culturale nordeuropea, quella dei paesi meridio-
nali e dell'Italia stessa. Qui il fenomeno si capovolge. Cioè fu la tradizione cattolica che ri-
cavò vita nuova e un volto tutto moderno dalle forze di questa seconda civiltà venete-
meridionale per potere opporsi vittoriosamente dapprima e poi mantenere attualità e sal-
dezza di fronte al centuplicato reflusso, che, nei tre secoli che ci precedono, quella civiltà,
ingigantitasi e nazionalizzatasi nel Nord, via via più impetuoso le andava movendo incontro.
Troppo vive e rompenti erano le nuove polle — e troppo alimentate dalla loro stessa prepa-
razione — perchè non se ne imbevesse l'arso terreno della nostra coltura e non ne rica-
vasse nascosto vigore la coscienza italiana. E fu nella ripristinata disciplina del dogma e
della amministrazione religiosa, l'attività piena di carità e di fervore dei nuovi Santi; il
comune sentimento d'un ampliato mondo da conquistare alla conoscenza e alla fede, con le
guerre e con la propaganda, con i viaggi e con le missioni; il crescere d'un senso d'oscure
forze, fra magiche e divine, e — se pure mal mente — allusive di un nuovo dialogo
fra Dio e l'uomo, interposta la Natura come un misterioso libro citrato. Dalle realtà sco-
perte dei fisici e dei viaggiatori, dalle verità divinate dai filosofi ecco nascosto derivare
un rivo alle coscienze ansiose del nuovo e del diverso e durante il secolare conflitto fra « an-
tichi » e « moderni », fra « eruditi » e « critici », fra« aristotelici » e « fisici » ispirantisi a volta
a volta a Galileo, a Lucrezio, a Gassendi, fra gesuiti e lockiani, fra dominatici e realisti in-
SERGIO ORTOLA.XI
peto e di volume. A tal punto il mondo tosco-romano, dopo avere in nome di Michelangelo
combattuto Tiziano, s'arresta sgomento e senza comprendere davanti a Tintoretto e rea-
gisce finalmente non solo contro la « visione veneta » ma contro tutta la nuova realtà che in
quella pungeva sottintesa, poiché l'espandersi e rivelarsi di questa nell'Europa settentrio-
nale e in Italia stessa la costringe a correre ai ripari. Siamo alla Controriforma.
Siamo al punto in cui le più libere forze della seconda vita italiana — Bruno, Tinto-
retto, Campanella, Caravaggio e i musici fiorentini col Monteverde — tentano primi di
conciliare e unificare i due mondi, mentre la tradizione tosco-romana, minacciata di morte,
taglia corto su tali tentativi e si rifà tutta, come in un agguerrito bastione, nella integrità
dei suoi dogmi e della sua pratica sapienza. I pedanti hanno vinto i nuovi filosofi. Vene-
tismo e manierismo vengono a patti.
Il Ranke, da buon romantico, c'è testimone d'una verità purtroppo comunale ormai e,
come tutte le sintesi, alquanto sommaria: — « Da un lato il mondo cattolico era concorde,
classico e monarchico; dall'altro il mondo protestante era diviso, romantico e republi-
cano ». Siamo verso il 1620. I cattolici trionfano: le missioni corrono il mondo: la Chiesa
celebra con l'arte barocca le sue vittorie. Con più largo senso storico possiamo dire che,
ai popoli dove la civiltà nuova s'era subitamente accesa con la grande fiamma di Lutero,
rendendo voce ribelle a Roma, s'impose, nel nome di Roma, un limite e una prova nella
rinnovata vitalità del mondo tosco-romano; e il romanticismo del Nord dovette non solo
fare i conti con la tradizione umanistica, dalla cui norma s'era con tanta violenza stra-
niato, ma della universale presenza cattolica e ricomperarsi una vita attraverso la secolare
esperienza di questa. Ciò spiega perchè ad un primo vittorioso fiorire delle arti e dello spi-
rito nuovo, nella seconda metà del cinquecento e negli inizi del seicento, segua, più costretto
in Venezia e nell'Italia meridionale, meno evidente nell'Europa del Nord, sebbene altret-
tanto reale, un secondo periodo d'assorbimento della nostra civiltà (sia pure alcuna volta
mediata la Francia), ricavandone proprio quella normativa e retorica classica nella quale
il gotismo aveva perduto e dimenticato la propria durante la fine del quattrocento, senza
per altro — nella breve consuetudine — averne acquistato in cambio la nostra ricchezza.
Ciò spiega infine cosa fosse tuttavia, fino ad Antonio Canova, l'Italia nel mondo, mal-
grado quella che a noi appare povertà e sventura dell'arte nostra durante il sei e settecento:
la vera maestra di stile, la terra in cui le più dolorose esperienze del nuovo conflitto più
coraggiosamente s'imprendevano e trovavano pur sempre — nel campo dell'arte — la riso-
luzione più umana e universale, ovverosia più popolare. Ma prima di esemplificare, vediamo
come si presenta, di fronte alla condizione culturale nordeuropea, quella dei paesi meridio-
nali e dell'Italia stessa. Qui il fenomeno si capovolge. Cioè fu la tradizione cattolica che ri-
cavò vita nuova e un volto tutto moderno dalle forze di questa seconda civiltà venete-
meridionale per potere opporsi vittoriosamente dapprima e poi mantenere attualità e sal-
dezza di fronte al centuplicato reflusso, che, nei tre secoli che ci precedono, quella civiltà,
ingigantitasi e nazionalizzatasi nel Nord, via via più impetuoso le andava movendo incontro.
Troppo vive e rompenti erano le nuove polle — e troppo alimentate dalla loro stessa prepa-
razione — perchè non se ne imbevesse l'arso terreno della nostra coltura e non ne rica-
vasse nascosto vigore la coscienza italiana. E fu nella ripristinata disciplina del dogma e
della amministrazione religiosa, l'attività piena di carità e di fervore dei nuovi Santi; il
comune sentimento d'un ampliato mondo da conquistare alla conoscenza e alla fede, con le
guerre e con la propaganda, con i viaggi e con le missioni; il crescere d'un senso d'oscure
forze, fra magiche e divine, e — se pure mal mente — allusive di un nuovo dialogo
fra Dio e l'uomo, interposta la Natura come un misterioso libro citrato. Dalle realtà sco-
perte dei fisici e dei viaggiatori, dalle verità divinate dai filosofi ecco nascosto derivare
un rivo alle coscienze ansiose del nuovo e del diverso e durante il secolare conflitto fra « an-
tichi » e « moderni », fra « eruditi » e « critici », fra« aristotelici » e « fisici » ispirantisi a volta
a volta a Galileo, a Lucrezio, a Gassendi, fra gesuiti e lockiani, fra dominatici e realisti in-