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SERGIO ORTOLANI
si vendicò più tardi della poco buona cera con cui il grande competitore l'aveva accolte»
a Roma, e dei suoi giudizi sulla Danae e in genere su tutta l'opera dei veneziani, riferiti
per bocca del Vasari:' ciò avvenne nel Dialogo della Pittura di Ludovico Dolce,' clic, benché
intitolato l'Aretino, (in memoria del comune amico, banditore della Scuola veneziana
sovra ogni altra del tempo, e perciò ben più dotato di senso critico che non il Vasari,
elogiatine del manierismo) trascura quasi — nella serie di accuse all'opera del Buonar-
roti — quella dell'Aretino stesso, o almeno non la pone certo come fiderò di esse, per
combattere con altre armi l'uomo con cui la tradizione toscana della linea del rilievo,
toccato il vertice dell'espressione, cadeva nel manierato e nel gonfio, lasciando ormai
liberai il campo della pittura moderna al « colore » dei veneziani.
Ma quale fu dunque il concetto totale di Pietro Aretino sull'opera di Michelan-
gelo? Per (pianto sia difficile raccoglierlo dai vari spunti dei suoi scritti, nei quali è
disseminato, esso ci appare molto prossimo a quello che ne aveva il Vasari.
Dice il Vasari: « L'intenzione di questo uomo singulare non ha voluto entrare in
dipignere altro che la perfetta e la proporzionatissima composizione del corpo umano,
ed in diversissime attitudini; non solo questo, ma insieme gli affetti delle passioni e
contentezze dell'animo, bastandogli satisfare in quella parte; nel che è stato superiore
a tutti i suoi artefici; e mostrare la via della gran maniera e degli ignudi, e (pianto ei
sa nelle difficultà del disegno, e finalmente ha aperto la via alla facilità di quest'arte
nel principale suo intento, che è il corpo umano; ed attendendo a questo fine solo, ha
lassato da parte le vaghezze dei colori, i capricci e le nuove fantasie... e stando saldo
sempre nella profondità dell'arte, à mostro a quelli che sanno assai, come dovevano ar-
rivare al perfetto»,' E in fondo, a questo giudizio convengono tutti i conoscitori e ammi-
ratori contemporanei.
Ora è certo un giudizio assai esterno all'opera del Grande, cioè essenzialmente formale.
Ma dobbiamo pur sempre ricordarci - noi moderni cstèti pasciuti di sottili elu-
cubrazioni spirituali —che è appunto il senso formale, compreso come tutta sostanza del-
l'arte, quello che nel modo più completo informa l'arte della pittura, non solo italiana
del Rinascimento, ma di tutti i secoli e i paesi.
E i grandi italiani d'allora furono spiriti puramente rappresentativi, o intuitivi,
che ben poco si rendevano conto del tormento interiore che spesso premeva l'anima
loro. Michelangelo non aveva che debole coscienza della sua tortura: la sentiva anzi per
ciò tanto più profondamente. Ma non ne risolveva certo criticamente entro l'animo suo
le ragioni e i modi.
Questo spinto informa naturalmente tutta l'arte del Cinquecento, così poco turbala
dal pensiero, così interamente perciò appunto plastica e pittorica, e informa quindi a mag-
gior ragione il giudizio che di essa potevano portare gli amatori ed il popolo tutto.
Ma già con Leonardo da Vinci, con Niccolò Machiavelli, con i filosofi del tardo
Cinquecento lo spirito critico moderno nasceva: l'intuizione cedeva il passo al concetto
logico; l'arte stessa tendeva, decadendo, a rappresentare le forme non soltanto comè
forme, ma come forme di idee.
Rieti i° gennaio 1922.
Sergio Ortolani.
1 Vasari, Le Vite, \" ed., 1550.
2 Ludovico DólcK, Dialogo della pittura inti-
tolati) I' I reti no..., In Vinegia, appresso & Giolito
de' Ferrari, 1557.
> Yasaki, Vite, v. VII, p. Z i <>,
SERGIO ORTOLANI
si vendicò più tardi della poco buona cera con cui il grande competitore l'aveva accolte»
a Roma, e dei suoi giudizi sulla Danae e in genere su tutta l'opera dei veneziani, riferiti
per bocca del Vasari:' ciò avvenne nel Dialogo della Pittura di Ludovico Dolce,' clic, benché
intitolato l'Aretino, (in memoria del comune amico, banditore della Scuola veneziana
sovra ogni altra del tempo, e perciò ben più dotato di senso critico che non il Vasari,
elogiatine del manierismo) trascura quasi — nella serie di accuse all'opera del Buonar-
roti — quella dell'Aretino stesso, o almeno non la pone certo come fiderò di esse, per
combattere con altre armi l'uomo con cui la tradizione toscana della linea del rilievo,
toccato il vertice dell'espressione, cadeva nel manierato e nel gonfio, lasciando ormai
liberai il campo della pittura moderna al « colore » dei veneziani.
Ma quale fu dunque il concetto totale di Pietro Aretino sull'opera di Michelan-
gelo? Per (pianto sia difficile raccoglierlo dai vari spunti dei suoi scritti, nei quali è
disseminato, esso ci appare molto prossimo a quello che ne aveva il Vasari.
Dice il Vasari: « L'intenzione di questo uomo singulare non ha voluto entrare in
dipignere altro che la perfetta e la proporzionatissima composizione del corpo umano,
ed in diversissime attitudini; non solo questo, ma insieme gli affetti delle passioni e
contentezze dell'animo, bastandogli satisfare in quella parte; nel che è stato superiore
a tutti i suoi artefici; e mostrare la via della gran maniera e degli ignudi, e (pianto ei
sa nelle difficultà del disegno, e finalmente ha aperto la via alla facilità di quest'arte
nel principale suo intento, che è il corpo umano; ed attendendo a questo fine solo, ha
lassato da parte le vaghezze dei colori, i capricci e le nuove fantasie... e stando saldo
sempre nella profondità dell'arte, à mostro a quelli che sanno assai, come dovevano ar-
rivare al perfetto»,' E in fondo, a questo giudizio convengono tutti i conoscitori e ammi-
ratori contemporanei.
Ora è certo un giudizio assai esterno all'opera del Grande, cioè essenzialmente formale.
Ma dobbiamo pur sempre ricordarci - noi moderni cstèti pasciuti di sottili elu-
cubrazioni spirituali —che è appunto il senso formale, compreso come tutta sostanza del-
l'arte, quello che nel modo più completo informa l'arte della pittura, non solo italiana
del Rinascimento, ma di tutti i secoli e i paesi.
E i grandi italiani d'allora furono spiriti puramente rappresentativi, o intuitivi,
che ben poco si rendevano conto del tormento interiore che spesso premeva l'anima
loro. Michelangelo non aveva che debole coscienza della sua tortura: la sentiva anzi per
ciò tanto più profondamente. Ma non ne risolveva certo criticamente entro l'animo suo
le ragioni e i modi.
Questo spinto informa naturalmente tutta l'arte del Cinquecento, così poco turbala
dal pensiero, così interamente perciò appunto plastica e pittorica, e informa quindi a mag-
gior ragione il giudizio che di essa potevano portare gli amatori ed il popolo tutto.
Ma già con Leonardo da Vinci, con Niccolò Machiavelli, con i filosofi del tardo
Cinquecento lo spirito critico moderno nasceva: l'intuizione cedeva il passo al concetto
logico; l'arte stessa tendeva, decadendo, a rappresentare le forme non soltanto comè
forme, ma come forme di idee.
Rieti i° gennaio 1922.
Sergio Ortolani.
1 Vasari, Le Vite, \" ed., 1550.
2 Ludovico DólcK, Dialogo della pittura inti-
tolati) I' I reti no..., In Vinegia, appresso & Giolito
de' Ferrari, 1557.
> Yasaki, Vite, v. VII, p. Z i <>,