MARY PITTALI7G I
Le scene vi sono « tenebrose »: tenebrose, non per svalutamento della funzione cro-
matica, in seguito all'ufficio della luce, come accade nelle opere certamente del maestro,
in cui il colore, per ritirato clic si sia, non potè inai aver il primo posto; ma tenebrose
per preconcetto, se può dirsi. Gli occhi lisi alle creazioni del Robusti, si dissero gli
scolari (e da un simile pseudo-ragionamento nacque l'infelicissimo tintorettismo del sei-
cento): « Dipinge scuro il maestro; dipingiamo scuro pur noi ». E non compresero come
le ti tenebre » tintorettesche fossero il risultato ultimo d'una concezione eccezionale, ma
rigorosa nella coerenza degli effetti, di cui, uè essi nè altri mai, avrebbe sostanzial-
mente afferrato il segreto, inafferabile, com'è inafferrabile un'anima. Attenendosi al
l'esteriore aspetto, usaron tinte tonalmente torti e pur cupe — il che è controsenso: —
forti così che la line, la quale ha in tali opere funzione soltanto apparente, non vale
ad accordare, e tanto meno a dominare. Ciò spiega come la forma dei corpi potè con-
servare tutta la sua costrutta solidità, e anzi staccarsi con contorni nitidissimi, quasi
taglienti, sul vuoto atmosferico, e come il panneggio clic in una scena luministica-
mente commossa suole aver veste sommaria, indiziale e poco più che suggerita al
poter suggestivo del nostro spirito, qui abbia pompa di sviluppo, e tanto poco >enta
il predominio della luce, da assumer (piasi l'aspetto di policroma materia pietrigna,
friabile, scolpita (Celebrazione del doge da Ponte).
Oneste scene ci appaiono come vedute attraverso un velo nero: e, se non una causa
materialmente esteriore, certo una esteriore allo spirito, razionalmente acquisita, ne
determina il peculiare aspetto: non la logica dipendenza da un princìpio artistico, iden-
tificantesi con un principio di stile.
Le composizioni del Senato, poi, mi sembrano ancor meno vicine a Iacopo; del
quale la cooperazione, per le due parietali specialmente, non mi par qui possa esser
giunta, lino a preparare lo schema dei quadri.
Nel Cristo Deposto, assistito dai dogi Pietro Landò e Marco A. Trevisan, è difficile
vedere un progetto attribuibile al maestro, se si eccettua, forse, la parte centrale, dove
il morto Iddio è sostenuto da angeli, con bel vigore compositivo — ma l'insopporta-
bile simmetria della scena (che tanto appn z/.ò il sciccntista MartinioniI), l'opacità con-
venzionale del colore, l'uniformità della luce radente le meschine forme ben levigate,
senz'energia suscitatrice di vita, tutto scosta il nostro giudizio dal nome del Tintoretto,
e tutto ne induce a chiederci, ancor una volta, come l'attribuzione possa anche oggi
trovar fautori (Berenson, Soulier, Phillipps). Se di quest'opera l'effetto mediocre sugge-
risce il nome di Palma giovane, quello di Domenico troverei conciliabile con le carat-
teristiche del Doge Loredano implorante la Vergine: fiacco, stereotipo insieme, neppur
nel suo concetto avvicinabile a Jacopo, di cui non basta a sollevar le sorti lo sfondo pia-
cevole della Piazza. Il Ruskin avea pensato, di questa spenta cosa, ch'essa rappresen-
tasse lo sforzo creativo del pittore dinanzi a un soggetto ingrato, impostogli...
Della vasta pittura del soffitto Venezia regina del Mare dovè invece, con probabi-
lità, Jacopo dar l'idea, che, altrimenti concretata, avrebbe potuto resultar ad un effetto
decorativo di prim'ordine: tuttavia, così come oggi è, il dipinto appare cosa mancata -—
ebbe intenti di grandiosità, ma venutogli meno il sostegno d'una potente mano, esecutrice
di ciò che una potente mente aveva pensato, resultò ad un insieme d'enfasi, del tutto
spiacevole. I critici sentirono come questa « Venetia Reina » e il nome del Tintoretto
mal s'accordassero: ma, ostinati a non voler rompere il secolare connubio, s'estasiarono
dinanzi alla parte bassa dell'opera, là dove epilettici Tritoni e Cavalli marini si contorcon
sull'orlo del mondo: la quale parte è, sì, la migliore, e rivela, come ho detto, alto senso
decorativo, ma è così maldipinta pur essa, e sottoposta a un gioco di luce tanto conven-
zionale ed inerte, da lasciar senza velo, tutta l'anti-tintorettesca durezza della costru-
zione corporea, cui un incoerente intento cromatico non basta a dar vita d'arte.
Il vasto spirito di Jacopo, suscitatoré d'immensa vita nei più umili soggetti, avrebbe
Le scene vi sono « tenebrose »: tenebrose, non per svalutamento della funzione cro-
matica, in seguito all'ufficio della luce, come accade nelle opere certamente del maestro,
in cui il colore, per ritirato clic si sia, non potè inai aver il primo posto; ma tenebrose
per preconcetto, se può dirsi. Gli occhi lisi alle creazioni del Robusti, si dissero gli
scolari (e da un simile pseudo-ragionamento nacque l'infelicissimo tintorettismo del sei-
cento): « Dipinge scuro il maestro; dipingiamo scuro pur noi ». E non compresero come
le ti tenebre » tintorettesche fossero il risultato ultimo d'una concezione eccezionale, ma
rigorosa nella coerenza degli effetti, di cui, uè essi nè altri mai, avrebbe sostanzial-
mente afferrato il segreto, inafferabile, com'è inafferrabile un'anima. Attenendosi al
l'esteriore aspetto, usaron tinte tonalmente torti e pur cupe — il che è controsenso: —
forti così che la line, la quale ha in tali opere funzione soltanto apparente, non vale
ad accordare, e tanto meno a dominare. Ciò spiega come la forma dei corpi potè con-
servare tutta la sua costrutta solidità, e anzi staccarsi con contorni nitidissimi, quasi
taglienti, sul vuoto atmosferico, e come il panneggio clic in una scena luministica-
mente commossa suole aver veste sommaria, indiziale e poco più che suggerita al
poter suggestivo del nostro spirito, qui abbia pompa di sviluppo, e tanto poco >enta
il predominio della luce, da assumer (piasi l'aspetto di policroma materia pietrigna,
friabile, scolpita (Celebrazione del doge da Ponte).
Oneste scene ci appaiono come vedute attraverso un velo nero: e, se non una causa
materialmente esteriore, certo una esteriore allo spirito, razionalmente acquisita, ne
determina il peculiare aspetto: non la logica dipendenza da un princìpio artistico, iden-
tificantesi con un principio di stile.
Le composizioni del Senato, poi, mi sembrano ancor meno vicine a Iacopo; del
quale la cooperazione, per le due parietali specialmente, non mi par qui possa esser
giunta, lino a preparare lo schema dei quadri.
Nel Cristo Deposto, assistito dai dogi Pietro Landò e Marco A. Trevisan, è difficile
vedere un progetto attribuibile al maestro, se si eccettua, forse, la parte centrale, dove
il morto Iddio è sostenuto da angeli, con bel vigore compositivo — ma l'insopporta-
bile simmetria della scena (che tanto appn z/.ò il sciccntista MartinioniI), l'opacità con-
venzionale del colore, l'uniformità della luce radente le meschine forme ben levigate,
senz'energia suscitatrice di vita, tutto scosta il nostro giudizio dal nome del Tintoretto,
e tutto ne induce a chiederci, ancor una volta, come l'attribuzione possa anche oggi
trovar fautori (Berenson, Soulier, Phillipps). Se di quest'opera l'effetto mediocre sugge-
risce il nome di Palma giovane, quello di Domenico troverei conciliabile con le carat-
teristiche del Doge Loredano implorante la Vergine: fiacco, stereotipo insieme, neppur
nel suo concetto avvicinabile a Jacopo, di cui non basta a sollevar le sorti lo sfondo pia-
cevole della Piazza. Il Ruskin avea pensato, di questa spenta cosa, ch'essa rappresen-
tasse lo sforzo creativo del pittore dinanzi a un soggetto ingrato, impostogli...
Della vasta pittura del soffitto Venezia regina del Mare dovè invece, con probabi-
lità, Jacopo dar l'idea, che, altrimenti concretata, avrebbe potuto resultar ad un effetto
decorativo di prim'ordine: tuttavia, così come oggi è, il dipinto appare cosa mancata -—
ebbe intenti di grandiosità, ma venutogli meno il sostegno d'una potente mano, esecutrice
di ciò che una potente mente aveva pensato, resultò ad un insieme d'enfasi, del tutto
spiacevole. I critici sentirono come questa « Venetia Reina » e il nome del Tintoretto
mal s'accordassero: ma, ostinati a non voler rompere il secolare connubio, s'estasiarono
dinanzi alla parte bassa dell'opera, là dove epilettici Tritoni e Cavalli marini si contorcon
sull'orlo del mondo: la quale parte è, sì, la migliore, e rivela, come ho detto, alto senso
decorativo, ma è così maldipinta pur essa, e sottoposta a un gioco di luce tanto conven-
zionale ed inerte, da lasciar senza velo, tutta l'anti-tintorettesca durezza della costru-
zione corporea, cui un incoerente intento cromatico non basta a dar vita d'arte.
Il vasto spirito di Jacopo, suscitatoré d'immensa vita nei più umili soggetti, avrebbe