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L' arte: rivista di storia dell'arte medievale e moderna — 8.1905

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Fasc. 6
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Fabriczy, Cornelius von: Un taccuino di Amico Aspertini
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https://doi.org/10.11588/diglit.24150#0457

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404

C. DE FABIRCZY

Avendo respinto i due argomenti del prof. Robert a prò di Giulio Romano, dobbiamo
finalmente addurne uno nostro contro di lui. Chiunque abbia qualche dimestichezza coi
disegni del maestro, vedendo quelli del nostro taccuino, al primo sguardo non potrà non
accorgersi ch’egli con questi non ha nulla a che fare. In nessun tratto, in nessun tipo si
rivela la maniera del più geniale fra gli allievi di Raffaello; niente si scorge in essi del
fine sentimento per la bellezza della linea, che il divino maestro seppe infondere a tutti i
suoi scolari. Abbiamo, invece, innanzi agli occhi l’opera di un artista di secondo o anche
minor ordine, che — materialmente — copia i modelli antichi con discreta precisione se
gl’ importa; ma per lo più ne altera la composizione secondo i propri ghiribizzi. In quanto
ai tipi, però, imprime a loro sempre le forme che sono caratteristiche per lui e differiscono
essenzialmente da quelle dell’arte antica; riguardo poi allo spirito intimo, all’essenza arti-
stica dei suoi modelli, non riesce affatto a renderne nè il soffio potente, nè la vita esube-
rante, nè il flusso armonioso che li anima. Resta sempre un copiatore e non possiede le
doti, 1’ intuizione per poter penetrare nell’ intimo genio di quell’arte, — doti che, in più o
meno alto grado, distinguono per lo appunto tutti gli allievi dell’ Urbinate.

A chi, dunque, con maggior giustezza anzi con assoluta certezza si può assegnare il
taccuino di Wolfegg? A siffatta domanda non riesce difficile di rispondere per chi abbia
conoscenza del fare caratteristico dei pittori del Rinascimento. L’autore del nostro libro di
schizzi non è altro che il Bolognese Amico Asper tini (c. 1475-1552). Per convincersene basta,
dall’una parte, il raffronto dei diseg'ni di Wolfegg, di cui parecchi furono pubblicati a cor-
redo dello studio del prof. Robert, e di cui noi aggiungiamo altri due fogli per illustrare
il presente articolo, colle pitture del maestro, specialmente cogli affreschi da lui eseguiti fra
gli anni 1506 e 1509 nell’Oratorio di Santa Cecilia presso San Giacomo maggiore a Bologna,
e nella Cappella Cenami della chiesa di San Frediano a Lucca; e basta, dall’altra parte, il
rievocarci in memoria quanto sulla sua personalità narra il Vasari (V, 179 e seg.) e quanto
per la caratterizzazione della sua arte fu svolto dal Venturi nel suo geniale articolo sugli
affreschi testé ricordati (Archivio stor. dell'Arte, IV, 248 e seg.).

.Se lo storiografo aretino stigmatizza l’Aspertini come « uomo di capriccioso e di bizzarro
cervello, come sono anco pazze, per così dire, e capricciose le figure da lui fatte per tutta
Italia» (1. c. a pag. 179), e se riferisce ch’egli * come persona astratta ch’egli era, e fuor
di squadra dall’altre, andò per tutta Italia disegnando e ritraendo ogni cosa di pittura e di
rilievo, e così le buone come le cattive: il che fu cagione ch’egli diventò un praticaccio
inventore » (1. c. a pag. 181), la sua narrazione si accorda benissimo con quanto risulta dallo
studio dei disegni di Wolfegg.

Come il prof. Robert ha dimostrato (a pag. 214 del suo studio), vi si vede che il loro
autore non fa caso di cambiar l’ordine di una composizione mettendo quello che si trova
alla fine di essa in testa della sua copia, o viceversa; d’interpolare in un bassorilievo cose
sue proprie, di tramutare uomini in donne, giovani in vecchi, un eroe sorreggente un’amaz-
zone morente in un dio Pane, di affiggere alla testa di un cavallo corna caprine, di convertire
Ippolito in Eracle, Fedra in un vecchio canuto, Arianna in dio Pane e Giove in una Bella
che si guarda nello specchio. Ed anche con quell’altra sua affermazione, che Amico andasse
disegnando pitture e bassorilievi senza discernimento di loro qualità per tutta l’Italia, il Vasari
sta nel giusto; giacché—come vedremo in seguito — all’infuori del taccuino di Wolfegg,
se ne sono conservati fino al giorno d’oggi altri due — e non si sa, quanti si siano per-
duti — che fanno testimonianza di quelle peregrinazioni. In quanto poi alla « bizzarria » delle
sue composizioni e figure, basta l’esame dei suoi affreschi, dove egli, alla rinfusa, semina le
reminiscenze dei suoi soggiorni a Roma, dilettandosi di creare tipi singolari quanto strani.

E qui ci piace di ripetere ciò che, per caratterizzarli, scrisse il Venturi nel sopraccitato
suo articolo : « Aspertini dà alle sue figure un tipo melanconico, con occhi piccolini, quasi
chiusi, che guardano di sbieco, con volti secchi, col mento breve dei vecchi, con facce larghe
schiacciate dei giovani, con nasi puntati, con'labbra strette come in un ghigno, con soprac-
 
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