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L' arte: rivista di storia dell'arte medievale e moderna — 8.1905

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https://doi.org/10.11588/diglit.24150#0189

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144

BIBLIOGRAFIA

tanto per quello che concerne la figura, ma anche per

10 sfondo assai studiato dal quale si diparte il nostro
autore per pronunziare il seguente giudizio, pienamente
giustificabile. «Tutto questo squarcio di veduta è di
una verità sorprendente e proprio dello stile di Piero
della Francesca, dal quale la tradizione dice appunto
che Bramante imparasse la pittura e la prospettiva ;
d’altronde anche lo stile naturale della figura, il colorito
chiaro e vero, e la maniera ricordano pure il maestro
di Borgo San Sepolcro. La nota personale di Bramante
all’ incontro emerge per il senso di larghezza monu-
mentale, per l’efficacia dell’espressione, pel sentimento
mesto, profondo».

Non si può negare che il confronto ch’egli pone
sotto gli occhi del lettore fra la testa del Cristo di-
pinta ed una al carboncino messa a riscontro, potrebbe
indurre di primo acchito ad accettare spontaneamente

11 suo parere, trattarsi quivi della mano dello stesso
maestro e fors’anco di un primo pensiero suo pel Cristo
di Chiaravalle.

Il prezioso foglio, da gran tempo noto, tanto agli
amatori nazionali quanto agli esteri, troppo prezioso
tuttavia per poter essere trattenuto a lungo andare in
una delle nostre raccolte, dopo varie vicende, da ultimo
è giunto in possesso delle collezioni di disegni del Bri-
tish Museurn a Londra, dove lo scrivente lo vide esposto
nella scorsa estate. I nostri migliori conoscitori, il pro-
fessor Giuseppe Bertini di Milano, che lo possedeva,
Giov. Morelli ed altri, sono sempre stati unanimi nel
riscontrarvi gl’indizi caratteristici del vicentino Barto-
lomeo Montagna. In Germania, dove sostò alcuni anni,
nessuna voce sorse in contraditorio. L’espertissimo di-
rettore inglese sig. Sidney Colvin in fine, volle esporlo
fra le più robuste cose del nostro quattrocento e in
ispecie come tipo eminentemente montagnesco. 1 C’è
da metter pegno, che il dott. Carottì rivedendo l’ori-
ginale riescirà a persuadersi che la somiglianza colla
testa del Cristo di Chiaravalle non è che accidentale,
mentre l’espressione è diversa e diverso è in modo spe-
ciale il modo di trattare i capelli, che non ha nulla
di comune con quello derivato da Pier della Fran-
cesca, dove si sogliono riscontrare certe ciocche inanel-
late, dai lumi acutamente accentuati.

Maggiore considerazione merita certamente la sco-
perta, proclamata dal Carotti, di quattro figure di an-
geli, dipinti a fresco nella Certosa di Pavia, nelle quali
egli pel primo avrebbe ravvisato la mano e il fare gran-
dioso di Bramante. Sono dipinti a due a due alle estre-
mità della crociera della chiesa, in alto, a lato dei fi-
nestroni tondi, praticati sotto la copertura a volte. Nel
mentre per un verso egli rileva la notevole differenza di

1 Fu per errore che lo scrivente in un suo articolo nell’Arte
(a. 1904, pag. 99) indicò il detto disegno, come esistente nella col-
lezione Bonnat a Parigi, mentre consta che, venduto all’asta in Ger-
mania, venne incorporato alla grande raccolta del British Museum.

caratteri onde sono improntate, al confronto di tutto
quanto apparisce nella decorazione circostante, che
proviene da Ambrogio Borgognone e da suo fratello
Bernardino, egli avverte come non facciano difetto le te-
stimonianze di antichi scrittori comprovanti la presenza
del grande artista alla Certosa. Sapendosi che i due
Borgognone attesero alla decorazione delle vòlte in-
torno al 1490, il Carotti ritiene che intorno a quel
tempo Bramante avesse dipinto i suoi angeli, i quali
troverebbero i loro prototipi in quelli di Pier della
Francesca e di Melozzo da Forlì. Ora mentre allo scri-
vente non è stata data fin qui, l’opportunità di con-
fermare de visti, per suo conto, l’interessante scoperta,
confida che al nostro collega di studi sarà riservata la
soddisfazione del consenso di tutti gl’intelligenti.

Venendo ora alla terza parte del libro, a quella cioè
che concerne l’attività del principe dei nostri gloriosi
pittori, non ci dilungheremo intorno ad argomenti
già tanto compulsati e meditati, pure riconoscendo
che il Carotti vi dedica delle pagine di caldo entu-
siasmo, da poter essere lette con piacere da quanti si
compiacciono ritornare sopra così attraente soggetto.
Un punto tuttavia, da gran tempo discusso in diversi
sensi e intorno al quale il sottoscritto, chiamato a ten-
zone dall’autore stesso, non saprebbe esimersi dal-
l’esprimere il suo pensiero è quello che si riferisce al
quesito del vero autore della raccolta di disegni, già
costituenti un libretto od album, rinvenuto dal pittore
Giuseppe Bossi, e dopo la sua morte passato in pro-
prietà dell’Accademia di Venezia.

È una cosa che merita di essere osservata, come
gli studiosi dell’arte in molti casi si lasciano suggestio-
nare da idee preconcette per formare dei giudizi, che
essi ritengono fondati sopra argomenti solidi, mentre
in realtà non sono che speciosi. Questa tendenza a
pascerci d’illusioni poi l’esperienza c’insegna, qual-
mente si verifichi in materia di disegni, dove scarseg-
giano, a confronto di quanto avviene delle opere di
pittura e di scultura, i dati per formarsi dei criteri si-
curi. Troppo spesso accade che uno si lascia traspor-
tare da una specie di ottimismo alla vista di soavi e
piacenti motivi per attribuirne l’origine senz’altro ai più
grandi artisti. Al punto a cui è giunta oggidì la critica
spregiudicata, oggettiva, c’è da persuadersi che il caso
si verifica nell’opinione già formatasi nel Bossi, il felice
possessore del suo tesoretto, come egli aveva qualifi-
cato il noto libretto, e successivamente nel Muntz e
nel Carotti, i quali alla loro volta non seppero capaci-
tarsi che un’altra penna all’infuori di quella di Raf-
faello avesse saputo tracciare codesti studi. Per venire
all’ultimo di questi scrittori egli dichiara che dopo
averli a lungo esaminati venne maturando in lui la
convinzione ch’essi portassero in sé stessi l’impronta
di una mano infantile, inesperta che non poteva es-
sere se non quella di un giovinetto d'Urbino, proba-
bilmente di Raffaello.
 
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