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L' arte: rivista di storia dell'arte medievale e moderna — 30.1927

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Lopresti, Lucia: Tre sculture di un Siciliano, a Roma
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https://doi.org/10.11588/diglit.55192#0131

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TRE SCULTURE DI UN SICILIANO, A ROMA

A chi ami raccoglier documenti sulla storia della scultura secentesca, a Roma, non
può esser sfuggita, nella chiesa della Minerva, un’opera singolare che, di fronte alla gran
cifra monumentale del Bracci, emerge dalla penombra della cappella di S. Domenico. Si
tratta di un gruppo marmoreo, modesto di proporzioni e d’apparenza, su cui l’attenzione
si ferma anche perchè uno strano capriccio iconografico vi favorisce la conversazione incon-
sueta tra un infantilissimo S. Giovanni Evangelista e la Vergine col Bimbo ed il piccolo
Precursore (fig. i).
Fattura manieristica o secentesca? Si rimane un po’ incerti prima di decidere: un
trattamento a volte ardito, a volte troppo timido, una libertà franca e un vizio di maniera,
una sapienza sintetica e una inesperienza forastica dividono infatti gli sguardi e il giudizio.
Senonchè si finisce per leggere, a destra, sullo zoccolo, queste parole che troncano ogni
dubbio: « Franciscus Crassia Panormitanus don. fec. an. 1670 ». È, in genere, soddisfa-
cente trovar datata un’opera che c’interessa, ma una data cosifatta apposta a questa scul-
tura, non si considera senza meraviglia. Che ha mai di comune — si pensa infatti — un’an-
nata inserita nel bel mezzo del più florido sboccio barocco, con un gruppo come questo?
Accuratamente ristretto su di una base solida e tozza, pare che esso si studi di mantenere
a rigore la compattezza e i limiti del blocco da cui fu estratto: la testa della Vergine si
china per raggiungere il livello delle testine infantili, e il manto che la ricopre le si allarga
sulle spalle, quasi tentando di unificare le divergenze inevitabili dei vari corpi. Un orrore
del vacuo particolarissimo sembra aver ordinato, a disegno, sul piedistallo, una conti-
nuità di forme che salda, ad esempio, le vesti della Vergine alle piume dell’aquilotto, e
le tenere carni dell’Evangelista al manto dell’agnello simbolico.
Questa intenzione, che sembra ispirata a canoni del tutto antisecenteschi contrasta
poi con certe apparenze di epidermica mollezza che donano a taluni particolari una fresca
e quasi pastorale soavità; e avviene così che, se i panneggi della Madonna s’indugiano in
piegoline fitte e slabbrate, sacre alla memoria degli scultori manieristi, certi dettagli, come
il latteo bamboccio raffigurante il minor S. Giovanni, son trattati con una tal leggiadra
disinvoltura quale non disdirebbe a chi rappresentasse il miglior settecento.
Settecento, ma non seicento: non così opaco rimaneva infatti il marmo sotto la mano
di chi aspirasse a fama berniniana, nè avrebber consentito le norme, sempre un po’ gene-
riche, del gusto barocco, un così spregiudicato abbandono ai suggerimenti di una interpre-
tazione, come questa, più pittorica che pittoresca. Eppure quest’opera — dice la storia —
fu fatta e donata nel 1670 da Francesco Crassia, palermitano.
sj:
Francesco Crassia è un artista del tutto oscuro. Ignoto ai lessici, egli non è nominato
mai nelle guide siciliane da cui sarebbe pur lecito sperare una qualche notizia, un accenno,
un’allusione. Evidentemente la Sicilia lo produsse, ma non lo conobbe, nè curò la glo-
riola che dai lavori di lui a Roma poteva derivarle. Solo l’esattezza del Titi notò, illu-
strando le chiese romane, il suo nome due volte; ed è così, grazie all’abate benemerito, che
una seconda opera può aiutarci a ricostruire in qualche modo una personalità che il tempo
ha così oppressa.
Vediamo, questa volta, una gran pala (fig. 2) che orna a tutt’oggi il primo altare a
mano diritta della chiesa di S. Ildefonso, in via Sistina: massiccia, complessa, lavoratis-

L'Arte, XXX, 12.
 
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