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L' arte: rivista di storia dell'arte medievale e moderna — 8.1905

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https://doi.org/10.11588/diglit.24150#0279

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BIBLIOGRAFIA

vato molto probabilmente da San Miniato al Monte
e da Santa Maria del Fiore. Secondo il M. il Palazzo
ducale nelle splendide decorazioni scultorie, deve ri-
tenersi un’opera artistica collettiva con impronta pre-
valentemente veneziana, salvo qualche leggera inter-
polazione di scalpello straniero, forse francese. L’arco
acuto dura in Venezia molto di più che nel resto di
Italia, e i palazzi ogivali arditi ed elegantissimi, sor-
sero ancora a decine, dopo che nel 1433, secondo il
Vasari, Michelozzo ebbe fatti in quella città molti di-
segni e modelli di abitazioni. Non era ancora giunto
il momento favorevole al distacco fra la sapiente arte
gotica e il Rinascimento in fiore, rivolto, più che altro,
alle magnificenze esteriori.

La scultura che fino al xn secolo si era conser-
vata fedele alla rinnovata influenza bizantina, tenta di
liberarsi dal giogo nei secoli xiii e xiv, ma non vi
riesce che in parte, infatti ancora oggi si trovano in
Venezia molte opere di quel tempo con caratteri greci
nella fattura e nello stile. Solo dal 1317 in avanti co-
minciano a comparire opere di scultura con precise
qualità italiane ; lavori deboli per altro e quantunque
ricchi di sentimento, non comparabili alle sculture fran-
cesi del tempo e meno che mai alle grandi tombe di
Digione incominciate da Claudio Sluter (y 1405). La
scultura veneziana si svincola finalmente dalle tra-
dizioni bizantine e romaniche per attingere dignità,
eleganza e sentimento dall’arte toscana; a questa si
abbeverarono i fratelli Iacobello e Pietro Paolo dalle
Masegne con i figli del primo Antonio e Paolo. Sa-
rebbe questa, finora, la famiglia più antica di scultori
veneti, ad essa seguiranno quelle ugualmente gloriose
dei Bono e dei Lombardo; nella pittura veneta lo
esempio di intere famiglie date all’arte è molto più
antico. La nuova influenza non si limita allo studio
fatto dai Dalle Masegne su di esemplari toscani, poiché
molti scultori della Toscana si recano a Venezia e ne
troviamo traccie nei documenti, nel Palazzo ducale,
in una bella scultura in legno ai Frari, nel monumento
del Beato Pacifico, ecc. Poco dopo gli scalpelli veneti
provano nelle opere la viva ammirazione per lo stile
donatelliano, iniziato a Padova dal grande artista
nel 1444, e continuato in Venezia stessa, col dono alla
cappella dei Fiorentini ai Frari, d’una statua in legno
di San Giovanni Battista. Su qualcuna delle attribu-
zioni del Molmenti « intorno a molte statue e decora-
zioni sulle cuspidi e gli archi della Marciana verisimil-
mente affidate verso il 1415 all’insigne aretino Niccolò
di Piero Lamberti detto il Pela » credo che dovrà in-
dugiarsi la critica per determinare con precisione mag-
giore l’opera dell’artista toscano che a noi sembra
troppo vasta e impossibile a costringersi fra il 14 giu-
gno 1403 e il marzo deLi4o6. Tanto più che risulta
documentato come Niccolò nel 1405 lavorasse già alla
pietra tombale di Leone Acciauoli nella cappella di
San Nicola a Santa Maria Novella a Firenze.

In poco più d’un anno e mezzo ben poco si può
fare in scultura, di qui la necessità di riprendere in
esame la questione importante e di restringere in giusti
confini l’opera di Niccolò. Il volume del M. si arresta,
per la scultura, all’influenza di Donatello.

* * *

Non possiamo partecipare all’entusiasmo del M. per
il musaico del Giudizio universale nel Duomo di T01-
cello, essendo esso stato rifatto nella massima parte;
riteniamo inoltre che sia un poco troppo personale il
giudizio reciso sulla immobilità della pittura bizantina
la quale, sia pure lentamente, continuò a muoversi e
a trasformarsi dal secolo vi al xiv. Del greco (?) Teo-
fane credo sarà bene non parlar più nella storia del-
l’arte veneta, essendo il suo nome un’invenzione poco
spiritosa d’un notaio e poeta di bassa lega G. Brac-
cioli ferrarese, cui tennero bordone in seguito parecchi
scrittori concittadini, meno l’onesto Frizzi. Che in Ve-
nezia nel 1290 anzi nel 1271 esistessero in buon nu-
mero veri e propri pittori risulta dallo statuto dell’arte,
dove sono ricordate le « ancone » che il M. stesso ram-
menta a pag. 380.

Utile e nuova la constatazione della ridipintura ese-
guita, sulle vecchie traccie bizantine, nella cassa della
Beata Giuliana. Ridipinto sfuggito al Cavalcasene e ad
altri studiosi i quali davano, in conseguenza, come
pitture della fine del xm secolo, opere molto più re-
centi. Mi sembrano troppo brevi le parole sui pittori
veneziani primitivi malgrado la notevole osservazione
finale intorno al contrasto « tra l’infantile ignoranza
della forma e lo splendore della colorazione intensa e
succosa che comunemente è dote di età ornai matura ».
Comprendo che la pittura veneta non è gran cosa fino
a Iacopo Bellini, ma qualche cenno più ampio che met-
tesse in maggior luce maestro Lorenzo (f. I357"i359 c0>
e che dilucidasse un poco quell’ingarbugliato periodo
dell’arte veneziana sarebbe stato curioso ed utile. Il
parallelo instituito fra l’architettura, la scultura e la
pittura veneta è giusto e convince, mentre prova una
volta di più che, se la città si abbelliva di opere stu-
pende della prima e della seconda arte, la pittura non
attingeva ancora, da quegli esempi, novella vita, nè
rivelava intendimenti d’un nuovo concetto artistico.
In queste speciali condizioni della pittura deve ricer-
carsi la cagione che la Repubblica chiamasse nel 1365
il padovano Guariento ad ornare la sala del Gran Con-
siglio nel Palazzo ducale e più tardi si rivolgesse pel
medesimo scopo a Gentile da Fabriano e a Vittore
Pisano. Da questi artisti l’arte veneta, asservita an-
cora in parte ai bizantini, prende nuovo impulso e si
avvia alla meta gloriosa.

I saggi degli artefici sono timidi, ma l’ascensione
è continua, dal padovano Iacopo Nerito a Iacobello
del Fiore, a Giambono e a Giovanni d’Alemagna, ad
Antonio Vivarini cui giovò l’influenza nordica della
 
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