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L' arte: rivista di storia dell'arte medievale e moderna — 18.1915

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Fasc. 1
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Longhi, Roberto: "Battistello", [1]
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https://doi.org/10.11588/diglit.24142#0092

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“ BATTISTELLO „

T A tradizione di naturalismo nordico è per l’arte napoletana qualcosa di secolarmente

JL j inconcusso e invincibile. Giotto e Simone vi sono accolti freddamente e il loro stile

non vi è interpretato dai seguaci che per via di limitazioni realistiche e perciò ridotto poco
a poco al nulla come efficacia d’arte: un secolo dopo il tardo goticismo illustrativo del
Besozzo attira ancora più dello stilismo fiorentino: Vati Eyck piace più di Masaccio: Van der
Weyden più di Piero: e l’affermazione di stile più profonda che abbia avuto il '400, quella di
Piero per l’appunto, non riesce a farsi strada a Napoli nè con Antonello, nè con qualche
pallida imitazione di scuola romana, nè col piccolo campione lasciato da Bramantino a San
Domenico Maggiore, e neppure con la solida volgarizzazione nelle serie narrative di Antonio
Solario.

Non è perciò avventurarsi in una troppo pericolosa filosofia della storia prevedere che
avverrà altrettanto dei Napoletani nel'500; sta il fatto che l’importazione delle idee artistiche del
centro d’Italia o vegeta poco vitalmente, come nella scuola sabatinesca, o tenta di unirsi con
l’antico realismo fiammingo; e produce allora qualcosa di infinitamente analogo al connubio
del tutto ibrido (e per noi la falsificazione peggiore che dell'arte possa avvenire) che fuori
d’Italia suole contrassegnarsi come Romanismo: e in realtà non vi sono romanisti più per-
fetti del trapiantato Marco Pino, di Cesare Turco, di Bernardo Lama e di altri ancora: fra-
telli carnali di Spranger, di Heemskerk, di Floris, e simili tristezze.

E infatti una cosa triste quando i mereiai fiamminghi di Van der Weyden o di Bouts,
rimpolpano improvvisamente i bicipiti di polpe alla michelangiolesca, quando il santo con gli
occhiali montati in oro, il calamaio e tanti e tanti astucci, finge di credere alla flessibilità — di
marca fiorentina — dell’alluce, o al riflesso della sua rotula, quando le massaie si altocin-
gono con la fascia delle Sibille che non tarda tuttavia ad acquistare in esse un puro signi-
ficato ortopedico; vorrei anzi dire che non v’è cosa più triste. Ma anche a Napoli non può
avvenire altrimenti quando le più fantasticate ideazioni visuali si vadano contaminando fred-
damente e ferocemente con le antiche notazioni cecamente realistiche.

Che gioia tuttavia quando dalle maglie compiacenti delle nostre previsioni evade, fosse
uno soltanto! che tenta di comprendere che cosa voglia dire la vita ricreata quale puro di-
segno! Certo Francesco Curia arriva un poco in ritardo per attuare con pieno rigoglio queste
idee e si accontenta anch’egli di un delizioso surrogato di stile agile, brioso, nerveggiato come
di bambù acerbo e verdognolo, ciò che lo potrebbe far credere, senza troppe limitazioni, un
Parmigianino o un Puntormo di Napoli.

Ma sono fuochi di paglia o d’artificio. Nè varrebbe la pena di fermarsi troppo sull’ Im-
parato che, se non m’ inganno, attua con molta più debolezza un altro surrogato di stile
tolto dalle variazioni coloristiche baroccesche, annacquate a Napoli nelle produzioni di Poma-
rancio vecchio : e per chi sa come non si trattasse nel Baroccio che di una superficiale per
quanto deliziosa falsificazione dell’impressionismo cromatico, che non mirava alle profonde di-
 
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