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L' arte: rivista di storia dell'arte medievale e moderna — 17.1914

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Fasc. 1
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Longhi, Roberto: Orazio Borgianni
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https://doi.org/10.11588/diglit.24141#0040

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8

ROBERTO BONGHI

Decadeva ormai la tradizione superficialmente decorativa che imperversata nella Controriforma e
dopo aver dato un uomo di talento esaurito in pochi anni, il cava.lier d'Arpino, non era stata tuttavia
capace di adattarsi alle esigenze nuove e di creare uno stile solido e passibile d’innesti quale nello
stesso tempo traevano quasi dagli stessi principi (elaborati nel Cambiaso) i grandi decoratori genovesi
Bernardo Castello e Lazzaro Tavarone, dei quali qualche opera deliziosa capitava a Roma in quei giorni
— meravigliando di certo per quel suo senso vivido e sottile ad un tempo, ridotto ad accordi variegati
di larghe zone monocrome.

Si rafforzava invece la tradizione accademica fiorentina che importavano a Roma con più insistenza
i gentiluomini, gli artisti ammodo Cigoli e Passignano. Il loro intento era bene analogo — in me-
todo -- al caraccismo ; nella decorazione, come se un artista potesse impiegare più che uno stile, la
fusione del disegno di chic del tardo michelangiolismo con elementi coloristici veneziani e correggeschi,
e questi accolti dalla risacca della spumosità iridata di Baroccio ; nel quadro un’analoga fusione, ma
con un disegno non schivo da un maggiore realismo obbiettivo. In verità l’intellettualismo del disegno
fiorentino era stato distrutto a Firenze quando Santi di Tito espandendo la specializzazione ritrattistica
di Bronzino a un onniritrattismo era giunto a una onesta e disperata accademia. In questi elementi di
solidità realistica e carnosa non sarebbe stato impossibile al talento trovare l’attacco col problema cara-
vaggesco ; ma il talento non era ciò che abbondasse in Cigoli in Passignano e nei loro conterranei d’al-
lora. Così è che tentando essi di aggiogare alla propria educazione di disegno realistico o accademico
visioni totalmente disformi come la coloristica e l’atmosferica, noi proviamo inevitabilmente di fronte
alle opere fiorentine del primo ’6oo disagio, e pena come di fronte ad individui spostati, spaesati. Cre-
dono di adottare le tinte vivide veneziane ed ecco scelgono i blu freddi del Tintoretto più tardo e
convertono la sua fluidità granata in zonè di rosa lapideo che stuccano la forma, credono di usare le

tappezzerie leggere di Veronese e trapungono pesantemente le stoffe dei rabeschi più grossi, e vistosi

come modelli ad uso dei sartori.

Non era certo da costoro, adunque, che potesse venire a Roma qualcosa di schiettamente Vene-
ziano, avvinti poi confessi erano a un senso della composizione tra spaziale e plastico, tra Raffaello e
Andrea del Sarto e iconograficamente volta alla frammentarietà della scena di genere che li fa trattare
molto volentieri soggetti come la Nascita della Vergine, la Presentazione al tempio e simili.

Il problema veneziano era infine quello che dava più filo da torcere a questi e agli altri artisti del
tempo e per problema Veneziano intendo non tanto il coloristico quanto quello che riguarda la lirica
della sostanza pittorica, la lirica cioè per cui gli artisti concepiscono il mondo come formato di un’unica
materia che imprime egualmente a tutte le forme e a tutti gli obbietti le stesse qualità primordiali di
spessezza, di compagine atomica, di coesione e di peso. E noterò di passata che con questa interpreta-
zione credo si sollevi a lirica creativa anche quella parte della cosidetta tecnica che pareva non si

volesse per la critica pseudo-idealistica sublimare ad arte: la pennellata.

Era questo dicevo il problema per il quale l’arte caravaggesca, accennandone vari sviluppi, lasciava
adito nei seguitatori ad incertezza d’interpretazione. Poiché Caravaggio dipartendosi da una sostanza
granulare come quella delle prime opere giorgionesche o filata e preziosa come quella delle suonatrici
aveva proceduto piuttosto verso una intensiva solidità che non verso un disfacimento atomico. Pure,
per chi sapesse coglierne la colata compatta e rapidamente rappresa, generatrice della spessezza delle
cose, la sua pennellata era sempre rimasta invincibilmente lombarda.

Ma due vie intanto si accennavano, l’una verso uno smalto uniforme-filato e lustro dove il rabesco
vitale divenisse invisibile, e l’altra verso la durezza. Per la prima via si mettono i molti fiamminghi
che vengono di questi anni a Roma — Honthorst che dopo la magnifica e fumida lanosità della Decol-
lazione del Battista alla Madonna della Scala diviene statuino eburneo e pellucido — i tre, Baburen,
Rombouts e Seghers, i quali iniziandosi al caravaggismo a traverso la grande ed abile volgarizzazione
di Manfredi si tengon paghi dello smalto compatto di costui senza risalire alle sorgenti e lieti di ritro-
vare qualcosa che si attagli alla loro secolare educazione nordica — e, finalmente, in certa parte, il
pretto fiammingo Ribera che inizia in questi anni a Roma la sua carriera pittorica con uno stile « il
quale per il più è per la strada del Caravaggio ». Y’è in tutti costoro che sono artisti di forza genuina
per cadere in un senso monotono di stucco e di cera un senso prezioso della superficie al quale
Caravaggio aveva concesso alquanto di sè nei suoi primi tempi creando le armonie un po’ zuccherine
della suonatrice Liechtenstein che parrebbero preludere più a Dow o a Mieris che non a Caracciolo
o a Preti.

A questo senso particolare, l’ho già detto di passata, si rannoda la superficie preziosa di Manfredi
che possiede tuttavia una forza notevole di tinte vivide e schiette, di composizione scorciata e di gesti
 
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